Roma, 1 gen – Per il secondo anno consecutivo, il primo di gennaio non si apre con la classica “stangata” per gli automobilisti. L’anno scorso la sospensione dell’aumento dei pedaggi sulle autostrade fu temporanea, nel 2020 invece non vi saranno rincari per tutti i 12 mesi sul 95% della rete. Una magra consolazione se si pensa che, nonostante il mancato aggravio al casello, il settore rimane in poche lucrosissime mani.
A certificarlo, in uno studio uscito pochi giorni fa, è una dettagliata analisi della Corte dei Conti. Sulla scorta delle polemiche scaturite dal crollo del Ponte Morandi, i magistrati contabili hanno ricostruito le performance degli ultimi anni del comparto. Traendone non poche contraddizioni.
Autostrade: l’impietosa analisi della Corte dei Conti
Nelle 188 pagine, che ricostruiscono le vicissitudini del settore dal 2012 al 2017, a risaltare è soprattutto il sensibile incremento del fatturato, cresciuto del 20% da 4800 a 5900 miliardi. Una traiettoria nello stesso senso, ma molto più ripida, ha conosciuto l’utile di esercizio delle varie società che gestiscono le autostrade: un tondo +50%, da un miliardo ad un miliardo e mezzo di euro. Peggio è andata allo Stato, i cui proventi sono sempre stati sensibilmente inferiori a quelli dei concessionari: addirittura la metà nel 2017.
A fronte di tali risultanze, sarebbe lecito aspettarsi analoghi tassi di crescita per quanto riguarda gli investimenti. I quali fanno sì 50%, ma in negativo: dai 2 miliardi del 2012 ai 959 milioni del 2017. Ancora peggio se guardiamo all’importo dei lavori in corso, passato da 8,7 a 3 miliardi. Numeri non sorprendenti se si pensa ai recenti episodi che tradiscono problemi nella gestione delle manutenzioni, ultimo in ordine di tempo il crollo di un pezzo di galleria sull’A26.
I rilievi della Corte dei Conti sono impietosi. “Il mantenimento dello status quo ha accentuato le inefficienze riscontrate nel sistema, quali l’irrazionalità degli ambiti delle tratte, dei modelli tariffari, di molte clausole contrattuali particolarmente vantaggiose per le parti private”, si legge.
E ancora: “Sono state segnalate dalle autorità indipendenti numerose carenze gestorie soprattutto nella fase successiva alla privatizzazione: a) sulle tariffe, sinora non regolate da un’autorità indipendente secondo criteri di orientamento al costo; b) sul capitale, non remunerato con criteri trasparenti e di mercato; c) sull’accertamento periodico dell’allineamento delle tariffe ai costi; d) sui controlli degli investimenti attraverso la verifica delle capacità realizzative e manutentive”.
In questo sistema farraginoso, complesso e poco trasparente, gli unici a brindare erano così i titolari delle concessioni: “La remunerazione degli investimenti risulta notevole – scrivono sempre dalla corte -. Per quelli previsti dalla convenzione con Autostrade per l’Italia fino al 2006, il tasso è del 7,18 per cento. Per gli investimenti non previsti entro ottobre 2006, un allegato alla convenzione del 2007 indica un rendimento del 10,45 per cento”. Numeri slegati da qualsiasi logica che si vorrebbe “di mercato”, specialmente laddove un mercato – parliamo sempre di un monopolio naturale – non può esistere. Trasformandosi così in un ristrettissimo oligopolio ipergarantito. A nostre spese, va da sé.
Filippo Burla
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[…] Eppure, dopo la tragedia che fra le altre cose ha scoperchiato un vaso di Pandora del redditizio (sulle nostre spalle) business, gli elementi c’erano – e ci sono – […]
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[…] Che finalmente le autostrade – non tutte, attenzione: Aspi controlla la metà, quasi 3 mila km sui 6 mila attualmente dati in concessione – tornino in mano allo Stato è una buona notizia. Parliamo d’altronde del monopolio naturale per eccellenza (insieme alle ferrovie) per il quale l’affidamento a qualsiasi soggetto al di fuori del pubblico si traduce immancabilmente nella creazione di una profittevolissima rendita di posizione, accompagnata da un’ipertrofia burocratica che rende difficile se non impossibile districarsi fra gli estremi degli accordi siglati. Posto quindi che la gestione statale – la quale non dovrebbe tradursi nel “semplice” affidamento ad una società creata ad hoc a partecipazione pubblica, lasciata poi al suo destino senza alcuna visione d’insieme – è l’unica desiderabile, la nazionalizzazione non poteva che essere il naturale esito di un percorso successivo all’emergere di palesi mancanze da parte del soggetto privato, quello per intenderci che mentre portava gli utili alle stelle dimezzava gli investimenti sulla rete. […]
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