La scarsa dinamica delle retribuzioni – che a dispetto della teoria monetarista sono, nella realtà, il principale motore dell’inflazione – era già chiara dagli ultimi dati: i prezzi aumentano solo a causa ad apporti esterni, come ad esempio quello dei beni energetici che scontano la fiammata al rialzo nei valori del petrolio, tornato stabilmente attorno ai 50$ al barile dopo i minimi assoluti del 2016. E’ la più classica delle inflazioni ‘cattive’, non dovute ad alcuna ripresa economica ma importata a tutti gli effetti.
Si allarga così la forbice fra stipendi e prezzi visto che, sempre a febbraio, questi ultimi sono cresciuti dell1,6%. Un divario che si allarga sempre più dopo i dati già non positivi del mese scorso. Segno che la politica di svalutazione interna – passata alla storia come ‘austerity’ – fa ancora sentire i suoi effetti, complici anche i numerosissimi contratti di lavoro scaduti e non rinnovati. Primo fra tutti quello della pubblica amministrazione, congelato da tempo e che porta con sé il poco invidiabile record del 100% dei lavoratori del comparto in attesa di un rinnovo che, se arriverà, sarà solo fra molti mesi.
Filippo Burla
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