New York, 6 set – Il 17 settembre prossimo la Federal Reserve (Fed) dovrà decidere se, per la prima volta dal 2006, aumentare o meno i tassi d’interesse sul denaro prestato alle banche, in questo caso realizzando la svolta storica dall’espansione alla stretta monetaria.
A mesi di distanza dalla fine dell’ultima operazione di stimolo monetario, la terza (“Qe3”) dall’esplosione della crisi finanziaria del 2008, con lo stato patrimoniale della Fed che nel frattempo è aumentato di un incredibile 60% grazie al bail-out delle banche e all’acquisizione di innumerevoli asset mobiliari, industriali e immobiliari, spingendo fittiziamente al rialzo gli indici di borsa americani (salvo retrocedere dopo la fine dell’ultimo Qe), i dati reali non hanno affatto corrisposto allo sforzo della più importante banca centrale del mondo – per altro in buona compagnia, nella politica espansiva, delle banche centrali giapponese, europea e cinese (e si è visto come è andata a finire con le ulteriori conseguenti bolle azionarie).
In primo luogo, i prezzi delle commodity, a partire dal petrolio, dopo una fase molto elevata dal 2011 a parte del 2014, sono collassati, gettando nel panico perfino l’Arabia Saudita che, con assoluta miopia, aveva assecondato il ridimensionamento dei prezzi.
In secondo luogo, le remunerazioni dei lavoratori non sono affatto aumentate, anzi il potere d’acquisto è retrocesso ovunque sia negli Stati Uniti che in Europa e Giappone, imponendo una seria ipoteca rispetto a qualsiasi possibilità di ripresa dei consumi, come del resto evidente nella stagnazione – attualmente contrazione – del commercio mondiale.
Un discorso a parte meritano invece gli ultimi dati sull’occupazione negli Usa, rilasciati il 4 settembre scorso: se il tasso di disoccupazione ufficiale è sceso dal 5,2% al 5,1%, segnando in pratica la “piena occupazione” e con questo soddisfacendo al primo dei due grandi obiettivi della Fed (il secondo è l’inflazione intorno al 2%, ben lontano dall’essere conseguito data la fase deflattiva), nella realtà occorre tenere conto di alcuni elementi contrastanti:
In luglio 2015, per la prima volta da due anni, il numero di occupati nell’industria manifatturiera è diminuito, interrompendo la lentissima ripresa seguita al baratro del 2008-2009
Lavoratori dei settori manifatturieri (curva rossa) e baristi e cameriere (curva verde)
Complessivamente sono stati persi circa 1,4 milioni di posti di lavoro nell’industria manifatturiera dal 2008, compensati però da circa 1,5 milioni di nuovi… baristi e cameriere, con i salari minimi, la bassissima specializzazione e la precarietĂ tipici di quei mestieri soprattutto negli Usa
Tra i settori più penalizzati dall’emorragia di posti di lavoro, quello delle esplorazioni ed estrazioni di materie prime energetiche, petrolio di scisto in testa, segnale – insieme alla diminuzione della produzione di oltre il 4% da giugno, che l’ha riportata ai valori del febbraio scorso dopo quasi cinque anni di crescita ininterrotta – che il ciclo discendente dei prezzi del barile sta iniziando a colpire duro anche negli Stati Uniti
Frazione dei potenziali lavoratori Usa e la relativa partecipazione alla forza lavoro (alto). Frazione della popolazione esclusa dalla forza lavoro (basso)