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Rilocalizzazione: il ritorno a casa del “made in italy”

by La Redazione
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Made_in_Italy_1Roma, 29 nov – Cina, Pakistan, India. Sono queste le “terre promesse” che negli ultimi 30 anni hanno attratto le aziende italiane. Attrazione per via delle ridotte spese fiscali e la manodopera a basso costo. Questi fattori hanno dato il via ad un processo, la delocalizzazione, che consiste nello spostare parti di aziende all’estero, sfruttando i “vantaggi” della globalizzazione.

Vantaggi che però non vengono percepiti nel paese che viene abbandonato, in quanto i soli effetti che hanno luogo, tra tutti, sono la cancellazione di posti di lavoro. Ma dal 2009 è in atto un processo di delocalizzazione al contrario, o più correttamente rilocalizzazione. Infatti da 4 anni, per quanto riguarda l’Italia, sono 189 le aziende che hanno deciso di rimpatriare parte delle linee produttive.

Tra le prime a compiere questo ritorno c’è la Polti di Como, divenuta famosa con la “Vaporella”, il primo ferro da stiro con caldaia in Italia. La scelta è stata causata da costi di spedizione divenuti più alti, dazi doganali aumentati, tasse maggiori, scarti di lavorazione, reclami da parte dei clienti e dall’aumento delle retribuzioni degli addetti cinesi.

Quindi l’esperienza iniziata nei primi anni 2000 è quasi conclusa. E come la Polti, anche altre aziende italiane hanno deciso di valorizzare il “made in Italy”. La Gaudi, la BZ Moda e la SVB sono tra i maggiori marchi tessili che dall’Est Europa  e dal Vicino Oriente hanno intrapreso la via di “casa”. Ma anche gli occhiali della Safilo e gli yacht Azimut hanno lasciato rispettivamente Cina e Turchia per ristabilirsi in Italia.

Secondo il gruppo di ricerca Uniclub Backshoring “l’Italia rappresenta il 6% di tutte le rilocalizzazioni europee”. Per il titolare della Fiamm, Stefano Dolcetto “è finita l’era delle delocalizzazioni all’inseguimento di costi più bassi”.

Infatti in Cina nel distretto industriale di Wuhan, il governo ha imposto l’aumento del 20% dei salari così da spingere i propri lavoratori a restare in patria e le multinazionali estere a limitare gli sfruttamenti. In pratica il contrario di ciò che avviene in Italia, dove non c’è nessun controllo sui salari e le aziende sono libere di sottopagare i propri dipendenti

Questo processo di rilocalizzazione in alcuni stati viene favorito dai governi tramite agevolazioni fiscali. E’ il caso degli Stati Uniti, dove Obama è riuscito a non far “scappare” la Apple, La Caterpillar e la Ford.  Ma anche Francia e Gran Bretagna stanno avviando queste agevolazioni.

In Italia invece solo la regione del Piemonte si è mossa in questa direzione con il contratto d’insediamento a favore delle imprese che investono più di 3 milioni di euro e che creano più di 50 posti di lavoro.

Ma il fatto che solo una regione abbia speso 17 milioni di euro per 30 nuove aziende è preoccupante, soprattutto se si pensa che il piano “destinazione Italia” annunciato in pompa magna da Letta ancora non dà i frutti promessi.

L’Italia dunque dovrebbe investire in quei settori in cui da anni rappresenta l’elite mondiale così da poter fare qualcosa che gli altri non potrebbero imitare. Dovrebbe riportare il “made in Italy” ad avere una richiesta sempre maggiore. Dovrebbe…

Federico Rapini

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