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Washington, 18 ago – Inaspettatamente, almeno per gli analisti mainstream, l’indice “Empire” americano, rappresentativo delle attività della manifattura, è crollato questo mese in territorio negativo a -14,92, dal valore di +3,86 di luglio, riflettendo il calo degli ordinativi registrato nei primi mesi dell’anno e, successivamente ancora più marcato, negli ultimi tempi. Nonché invertendo una debole tendenza rialzista dei precedenti tre mesi, probabilmente viziata però dall’aumento degli inventari.
L’indice manifatturiero si riporta così ai valori tipici del 2009, nel pieno della grande crisi finanziaria.
Insieme alle attività e agli ordinativi, sono diminuite pure le ore di lavoro e il numero degli addetti nello stesso comparto manifatturiero, esacerbando la stagnazione di un mercato del lavoro già fortemente penalizzato dalle decine di migliaia di licenziamenti nel settore energetico in conseguenza dei bassi prezzi del petrolio e dal taglio progressivo degli strumenti finanziari a sostegno del settore.
Tanto che l’indice di partecipazione alla forza-lavoro non ha mai arrestato la propria corsa al ribasso, portandosi sotto i livelli del 1978, mentre il numero degli esclusi dalla forza lavoro non cessa di crescere tendendo verso l’esorbitante valore di 100 milioni di persone.
Insieme alla persistente stagnazione dei salari degli ultimi due decenni – in realtà una perdita secca e crescente del potere d’acquisto reale delle famiglie – non stupisce che le vendite al dettaglio negli Usa segnino il passo, finendo in terreno negativo come variazioni anno su anno in termini di vendite pro-capite.
Se la Cina, a suon di svalutazioni della moneta, si affanna a sovvertire le regole da manuale dell’economista neoclassico seguite fino a pochi mesi fa, di fronte all’evidenza di una crescita asfittica e probabilmente ben inferiore rispetto ai dati dichiarati, è assai più incerto cosa si deciderà di fare a Washington, dove la già modestissima e altrettanto dubbia ripresina del secondo trimestre 2014 appare condannata a ritracciare verso la stagnazione del Pil del primo trimestre, ossia intorno al +0,5% previsto dalla Fed di Atlanta per il terzo trimestre, in considerazione delle fortissime resistenze dell’onnipotente mondo finanziario al superamento della politica degli interessi zero.
Al di là delle misure valutarie in corso ed eventuali, in ogni caso, quello che rimane è che le due più grandi economie del mondo se la passano simultaneamente piuttosto male, ipotecando con questo le speranze di ripresa anche a livello globale.
Francesco Meneguzzo
Washington, 18 ago – Inaspettatamente, almeno per gli analisti mainstream, l’indice “Empire” americano, rappresentativo delle attività della manifattura, è crollato questo mese in territorio negativo a -14,92, dal valore di +3,86 di luglio, riflettendo il calo degli ordinativi registrato nei primi mesi dell’anno e, successivamente ancora più marcato, negli ultimi tempi. Nonché invertendo una debole tendenza rialzista dei precedenti tre mesi, probabilmente viziata però dall’aumento degli inventari.
L’indice manifatturiero si riporta così ai valori tipici del 2009, nel pieno della grande crisi finanziaria.
Insieme alle attività e agli ordinativi, sono diminuite pure le ore di lavoro e il numero degli addetti nello stesso comparto manifatturiero, esacerbando la stagnazione di un mercato del lavoro già fortemente penalizzato dalle decine di migliaia di licenziamenti nel settore energetico in conseguenza dei bassi prezzi del petrolio e dal taglio progressivo degli strumenti finanziari a sostegno del settore.
Tanto che l’indice di partecipazione alla forza-lavoro non ha mai arrestato la propria corsa al ribasso, portandosi sotto i livelli del 1978, mentre il numero degli esclusi dalla forza lavoro non cessa di crescere tendendo verso l’esorbitante valore di 100 milioni di persone.
Insieme alla persistente stagnazione dei salari degli ultimi due decenni – in realtà una perdita secca e crescente del potere d’acquisto reale delle famiglie – non stupisce che le vendite al dettaglio negli Usa segnino il passo, finendo in terreno negativo come variazioni anno su anno in termini di vendite pro-capite.
Se la Cina, a suon di svalutazioni della moneta, si affanna a sovvertire le regole da manuale dell’economista neoclassico seguite fino a pochi mesi fa, di fronte all’evidenza di una crescita asfittica e probabilmente ben inferiore rispetto ai dati dichiarati, è assai più incerto cosa si deciderà di fare a Washington, dove la già modestissima e altrettanto dubbia ripresina del secondo trimestre 2014 appare condannata a ritracciare verso la stagnazione del Pil del primo trimestre, ossia intorno al +0,5% previsto dalla Fed di Atlanta per il terzo trimestre, in considerazione delle fortissime resistenze dell’onnipotente mondo finanziario al superamento della politica degli interessi zero.
Al di là delle misure valutarie in corso ed eventuali, in ogni caso, quello che rimane è che le due più grandi economie del mondo se la passano simultaneamente piuttosto male, ipotecando con questo le speranze di ripresa anche a livello globale.
Francesco Meneguzzo