La vicenda risale al 1991, quando grazie ad un accordo con il governo di Dublino la società fondata da Steve Jobs è riuscita a costruire un “fisco su misura” che, grazie ad un sistema di più società costruite dentro e fuori l’Irlanda, ha permesso ad Apple di pagare frazioni infinitesimali delle imposte dovute all’erario dell’isola: fino allo 0,005% rispetto al 12.5% previsto per gli altri soggetti che operano – o meglio: dovrebbero operare – a pari condizioni. In cambio, Apple ha effettuato numerosi investimenti, assumendo nel tempo oltre 5500 irlandesi. Secondo la disciplina comunitaria, però, si tratta di aiuti di stato a tutti gli effetti, circostanza che viola qualsiasi principio di libera concorrenza dato che concede favori indebiti a chi non ne avrebbe bisogno, tanto più che i bilanci della mela non sembrano essere così traballanti da richiedere sostegni pubblici di sorta.
“Non è una punizione – spiega la Vestager – ma di tasse non pagate che devono essere pagate. E’ una differenza importante”. Essendo questo il principio, inoltre, “non c’è alcuna retroattività”. Sia il governo di Dublino che Apple sono pronti a fare ricordo contro la decisione Ue, che si preannuncia – se confermata – essere un precedente importante tanto quanto l’inchiesta dell’Agenzia delle Entrate che alla fine dell’anno scorso costrinse la stessa Apple a versare oltre 300 milioni al fisco.
Filippo Burla