Successivamente l’azienda avrebbe ripagato gli interessi su questa mole (102mila miliardi di lire) con la propria generazione di cassa. Da un punto di vista tecnico fu un successo, da quello industriale un vero e proprio fallimento che si concretizzò nella dismissione di asset prima e nella cessione in blocco dell’azienda solo due anni dopo. Il resto, fino alla recente presa di possesso da parte degli spagnoli di Telefónica della holding di controllo Telco, è storia recente. Con buona pace della difesa dell’italianità.
Una prassi, quest’ultima, tanto consolidata quanto perfettamente inutile. Un falso economico. E’ vero che di fronte ad una struttura di controllo nazionale vi è maggiore capacità di impostare una politica economica di ampio respiro e che possa immediatamente affrontare problemi cogenti senza dover aspettare placet d’oltreconfine. D’altra parte, non sempre è dato che il capitale italiano sia maggiormente desiderabile rispetto al capitale forestiero. Anzi, la storia industriale dal 1861 ad oggi ci rivela che gli imprenditori nostrani sono sempre stati perfettamente in grado di investire i denari altrui con rischio minimo: l’Iri non nacque per un caso fortuito.
Una volta privatizzata una società e lasciata mano libera alle magnifiche sorti e progressive del mercato, il danno era ormai compiuto. Tanto più che Telecom opera in quel che si definisce settore strategico, nel quale la presenza esclusiva dello Stato non è ideologia ma necessità. Un discorso analogo vale per Alitalia: i presunti patrioti che si spartirono il vettore aereo non hanno fatto che peggiorare la situazione e ora, al più, la fu compagnia di bandiera verrà ceduta ai francesi o chi per loro ad una frazione del valore precedente. C’è poco da esserne orgogliosi, checché l’ex ministro Lupi rivendichi l’operazione condotta e Maurizio Gasparri tuoni ancora per la difesa di un’italianità che, di fronte ad un capitale per sua natura apolide, di nazionale ha davvero poco.
Filippo Burla
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