Questa ultima decade ha visto un’espansione eccezionale della produzione di olio e gas negli Stati Uniti, guidata da nuove tecnologie, in particolar modo la tecnica di perforazione orizzontale negli scisti a gas e a olio (shales), formazioni a idrocarburi che si trovano principalmente nei bacini texani di Permian e Eagle Ford, Stack e Scoop in Oklahoma e Bakken in Nord Dakota. Dopo il crollo del prezzo del greggio nel 2014 i produttori hanno cominciato a chiudere i pozzi attivi perché non più convenienti ad un ritmo mai visto prima: ridotti dell’80%, la più bassa percentuale di sempre. Pertanto l’industria petrolifera si è trasformata per sopravvivere: impiega ora meno lavoratori ed è focalizzata maggiormente su quelle ricche formazioni di scisti a gas o a olio che le hanno permesso di sopravvivere e di garantire agli Usa l’indipendenza.
Fallita quindi la politica del prezzo a ribasso voluta da Ryad per emarginare i produttori della risorsa da scisti, che quindi si sono dimostrati più forti limando i costi di produzione che hanno permesso loro di sopravvivere. Ora bisognerà vedere come si porrà l’Opec davanti a questa tendenza imposta dalla nuova ondata di greggio americano stante la decisione comune del taglio della produzione e come risponderà il mercato a questa iniezione di risorsa e quindi come varierà il prezzo al barile. Pensiamo inoltre che l’aumento della produzione possa essere dettato dal rinnovato entusiasmo per gli idrocarburi espresso dalla nuova amministrazione Trump, ma la tendenza di crescita si è sviluppata già a partire dal primo semestre del 2016, quindi quando ancora una vittoria di Trump non era così scontata.
Paolo Mauri
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