Roma, 27 mar – Ci sono i veneti che fanno il loro referendum farlocco per diventare indipendenti. C’è il movimento “Trieste libera”, che rivolge un ultimatum all’Italia (!) chiedendo il riconoscimento di un “territorio libero”. Ci sono gli eterni neoborbonici e neobriganti, con il loro secolare vittimismo accidioso, supponente e greve. C’è il solito equivoco padanista. C’è l’indipendentismo sardo e quello siciliano. I separatisti altoatesini e quelli valdostani. E poi, spulciando su internet, si scivola lungo il crinale del disagio esistenziale e politico, con la Grande Lombardia, la Toscana libera, il principato di Salerno…
La crisi genera malessere, svela l’inganno di uno Stato che non esiste ma che è fin troppo efficiente solo quando deve mandarti le cartelle esattoriali. E allora per molti la soluzione è demolirne gli ultimi ruderi, dello Stato. Quella separatista e anti-nazionale è in effetti la strada più individualista, più capitalista, più liberale che si possa immaginare.
Del resto il dna ideologico di tali correnti politiche è noto. Avendo come solo vero nemico lo Stato e la nazione, l’indipendentismo e il secessionismo riescono a coalizzare attorno a sé entrambe le forze nemiche dello Stato e della nazione: comunismo e capitalismo.
Il cosiddetto “diritto all’autodeterminazione dei popoli”, che fornisce la giustificazione morale e filosofica all’indipendentismo, fu non a caso enunciato dal presidente americano Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles per giustificare lo smantellamento degli stati usciti perdenti dal primo conflitto mondiale, nonché per “mutilare” la vittoria di chi, pur trionfante nelle trincee, non poteva trovar posto al tavolo dei vincitori.
Al giorno d’oggi, esso è talmente politicamente scorretto che è stato affermato nella Carta Atlantica (14 agosto 1941) e nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55), nella Dichiarazione dell’Assemblea generale sull’indipendenza dei popoli coloniali (1960); nei Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (1966) fino alla Dichiarazione di principi sulle relazioni amichevoli tra Stati, adottata dall’Assemblea generale nel 1970.
Uno dei padri del liberalismo più anti-statale, Ludwig von Mises, spiegava a suo tempo:
“Il diritto di autodeterminazione, per quanto concerne la questione dell’appartenenza allo Stato, non significa che questo: ogniqualvolta gli abitanti di un dato territorio – a prescindere che si tratti di un singolo villaggio, di un’intera contea, o di una serie di distretti contigui – hanno espresso, mediante il ricorso a libere votazioni, il desiderio di non voler più far più parte dell’ordinamento statale cui al momento appartengono, bensì di ambire alla costituzione di uno Stato autonomo, ovvero di venire a fare parte di un altro Stato, di queste volontà bisogna naturalmente tener conto. Questo è l’unico modo praticabile ed efficace per prevenire rivoluzioni, guerre civili e conflitti internazionali. Tuttavia, il diritto di autodeterminazione a cui ci riferiamo non si limita a quello delle nazioni, ma si estende agli abitanti di ogni territorio sufficientemente ampio da formare un’unità amministrativa indipendente. E se, al limite, fosse possibile concedere a ogni singolo cittadino questo diritto di autodeterminazione, bisognerebbe intervenire senza indugio. Tuttavia, questo sembra impraticabile, solo a causa di considerazioni di natura tecnica, rendendo necessario che una regione sia disciplinata come una singola unità amministrativa e il diritto di autodeterminazione limitato alla volontà della maggioranza degli abitanti, residenti in aree sufficientemente estese, tali da essere incluse come unità territoriali nell’amministrazione del paese”.
Il pensatore anarcoliberista Murray Rothbard, fautore della privatizzazione di tutto il privatizzabile, successivamente, ha aggiunto:
“Un sostenitore del laissez-faire riconoscerebbe ad una regione il diritto di separarsi dal paese al quale appartiene? È legittimo per la Ruritania dell’Ovest secedere dalla Ruritania? Se no, perché? E se così fosse, quale sarebbe il limite logico da apporre al tentativo di secessione? Non potrebbe reclamarla un distretto, poi una città, un quartiere, un isolato e, infine, un particolare individuo? Nel momento in cui ammettiamo vi possa essere anche un solo diritto di secedere da qualcosa, non vi è alcuna limitazione logica di sorta all’esercizio di tale diritto, il quale comporta, naturalmente, l’anarchia, poiché gli individui possono separarsi, organizzare e curare privatamente i propri interessi, sgretolando lo Stato”.
E in effetti, se è la logica “centralista” che si contesta, che senso avrebbe staccarsi da uno Stato e riprodurre la stessa dinamica in scala? Perché un padovano dovrebbe staccarsi da Roma e poi accettare l’indebito dominio di Venezia? E perché i cittadini della provincia dovrebbero accettare di stare sotto il tallone dell’odiato capoluogo? In una superfetazione gassosa e incontrollata di “diritti” si arriva necessariamente alla secessione dell’individuo dalla comunità. Non è la creazione di un altro Stato, ma la messa in questione dell’idea stessa di Stato.
E infatti gli anarcoliberisti finiscono per teorizzare appunto la creazione di comunità private di natura contrattuale. Evan McKenzie ha parlato di “privatopie”, cioè aggregazioni di condomini o sezioni di quartieri completamente privati dove tutto, dall’acqua alla nettezza urbana, passando per le forze dell’ordine e i pompieri, è privato.
Teorizzando l’estinzione dello Stato, l’anarcocapitalismo non poteva che incontrarsi con il marxismo, che tuttavia ha rimandato la soppressione definitiva delle comunità politiche in un futuro idilliaco e indeterminato, limitandosi nel presente a sancire il sacrosanto diritto di secessione.
Lenin, per esempio, ha scritto:
“Il Socialismo deve necessariamente stabilire la piena democrazia e, di conseguenza, non solo introdurre piena uguaglianza delle nazioni, bensì realizzare il diritto di quelle oppresse all’autodeterminazione, per esempio, il diritto alla libera separazione politica… La libera unione è un falso mito, senza il diritto di secedere”.
Stalin fu solo un poco più cauto:
“Una nazione ha il diritto di decidere liberamente il suo destino. Ha il diritto di organizzarsi come le aggrada, naturalmente senza calpestare i diritti delle altre nazioni. Questo è fuori discussione… Ha anche il diritto di staccarsi dallo Stato di cui fa parte. Ma ciò non significa ancora che debba farlo in qualsiasi circostanza, che l’autonomia o la separazione siano, sempre e dovunque, utili alla nazione”.
Comunismo e capitalismo: i due gemelli separati alla nascita, si ricongiungono così con l’anti-Stato e l’anti-Italia.
Adriano Scianca
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[…] e per lo più pagliacceschi come i vari secessionismi, revanscismi, campanilismi, indipendentismi, lo abbiamo detto. A questa spinta centrifuga, tuttavia, va data una risposta politica, non certo […]