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Referendum: bene la vittoria del “No” ma risparmiateci la retorica sui poteri forti

by Emmanuel Raffaele
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referendumRoma, 5 dic – Secondo Matteo Salvini, segretario della Lega Nord, è “la vittoria del popolo contro i poteri forti di tre quarti del mondo”. Secondo l’inglese “The Independent” il “No” alla riforma costituzionale Renzi-Boschi rappresenta quello che per gli Usa, il Regno Unito ed il mondo hanno significato, rispettivamente, l’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti e la Brexit. Mera propaganda in entrambi i casi. Detto questo, premettiamo i dati ad ogni commento: al quesito referendario per la “ratifica popolare” della riforma del governo il 59,6% dei votanti ha tracciato una “X” sul “No” mentre soltanto il 40,4% ha votato “Si”, mandando all’aria i piani del premier e segretario del Pd Matteo Renzi. Quanto all’affluenza, ha votato ben il 68,44% degli elettori.

Numeri che ci aiutano a capire molto il significato politico del voto. Fondamentalmente, Renzi si è trovato solo, con una minoranza del partito a mettergli i bastoni tra le ruote ed una opposizione, dal Movimento 5 Stelle alla Lega e Fratelli d’Italia ad approfittarne per scalzare il governo, ed un Berlusconi machiavellico che, in extremis, ha cavalcato ambiguamente il “No”. Certo, hanno detto “Si” gli alfaniani, Verdini, gli industriali e quel poco che rimane dei socialisti; ci sono state le fastidiose invasioni di campo del presidente americano uscente Barack Obama e l’appoggio interno del “tranquillizzante” Prodi e del “simpatico” (punti di vista, parte due) Benigni, per citare due esponenti illustri del mondo della politica e dello spettacolo. Per il resto, era un tutti contro Renzi e, probabilmente, se avesse vinto il “Si” il caro Matteo avrebbe meritato le chiavi del paese ed un rigar dritti autoimposto.

La strategia della paura, ancora una volta, non ha funzionato, ma era una strategia basata sul nulla e con molta meno forza elettorale e mediatica. D’accordo, come ha tenuto a sottolineare più volte la Boschi, anche CasaPound si era schierata per il “No”. Ma, come dicevamo, pure Salvini pure e Fratelli d’Italia, e poi l’Anpi, Sel, il moderatissimo Stefano Parisi (quello che a sentir parlare di alleanze politiche con Salvini gli viene un’irritazione allergica), il Movimento 5 Stelle ed un nugolo di costituzionalisti che parlar di schieramento dei cattivi veniva proprio difficile. Insomma, buttarla sul pericolo per la democrazia era francamente un po’ troppo e, ovviamente, non ha funzionato ed, anzi, si è giocato spesso questa carta proprio sul fronte opposto. Dunque, niente di paragonabile alla Brexit o alla questione Trump: lì, quantomeno, in gioco c’era un cambiamento oggettivo, qui cade soltanto Renzi e, chissà, magari decidono di farci votare, dopo tre governi privi di legittimità popolare, venuti fuori da accordi di palazzo in una situazione politica nel frattempo molto cambiata rispetto alle ultime consultazioni. Niente di straordinario insomma. Tutto resta aperto. Cambio di governo a parte, anzi, cambio di governo incluso, essendo anch’essa una purtroppo lunga tradizione repubblicana dell’Italia, tutto rimarrà com’era.

Non ha vinto il popolo, perché, a parte ricordare a Renzi che il suo seguito non rappresenta la maggioranza assoluta degli elettori (cosa che, in realtà, non dovrebbe sorprendere), il voto ha poco altro di politico, dal momento che il “No” non è certo uno schieramento unito da un qualche pur minimo collante ideale. C’è chi, a destra e a sinistra, fuori e dentro il Pd, ha votato semplicemente contro Renzi, c’è chi ha votato “per difendere la Costituzione più bella del mondo” (quelli meno simpatici), c’è chi ha votato perché “questa riforma mette in pericolo per la democrazia” e c’è chi ha votato per convenienza. Niente ma proprio niente che possa far presagire uno scenario politico diverso o l’emergere in modo importante di una forza politica nuova. Insomma, il significato del voto è stato certamente politico ma, diciamolo pure, al di là del “No” a Renzi, di politico c’era poco altro o, forse, nulla.

Ciò non vuol dire che il “No” politicizzato fosse sbagliato. Anzi, proprio per chi non è un fan sfegatato di questa Costituzione, la scelta tra le due alternative non avrebbe potuto avere motivazioni maggiori di questa. Non si trattava in questo caso di difendere lo status quo ma, chiaramente, di buttare giù il governo e sperare nel momento favorevole per il voto. Egoismo politico? Lo sarebbe stato, certo, se per questa riforma fosse valso la pena tenersi Renzi. Ma, di sicuro, non ne valeva la pena. La riforma Renzi-Boschi non era certamente il male assoluto dipinto da grillini e compagnia bella ma, allo stesso modo, non era oggettivamente il massimo a cui aspirare, tutt’altro.

Abolire il Senato? Fate pure. Fare del Senato un organo di rappresentanza territoriale? Ci può stare. Ma perché, dopo aver consegnato sfacciatamente le province alla gestione interna dei partiti, avremmo dovuto fare la stessa cosa addirittura con il Senato? Perché, dovendo esprimere la rappresentanza degli enti regionali e delle amministrazioni locali, non fornire i senatori di un minimo di rappresentatività diretta, scegliendo invece di dare ai consiglieri regionali la facoltà di scegliersi tra loro? Non sarebbe stato più semplice, più utile e più idoneo, a questo punto, aprire direttamente le porte del nuovo Senato, ad esempio, ai presidenti delle regioni, eletti direttamente dai cittadini e quindi già dotati di rappresentatività popolare e di una reale capacità di influenza connessa alle proprie attribuzioni? Con questo criterio e selezionando attraverso un criterio analogo anche i rappresentanti degli enti locali, il Senato avrebbe potuto concretamente dare un peso ed un ruolo istituzionale ai territori. Oppure non ti sta bene? Preferisci rinforzare lo Stato centrale? Perfetto, allora abolisci direttamente il Senato, anziché regalare a cento non eletti, cooptati dalle segreterie dei partiti, un’ingiustificata immunità parlamentare. E – tra parentesi – che senso avrebbero avuto i senatori a vita in questo Senato?

La riforma, naturalmente, non era tutta sballata. La velocizzazione dell’iter legislativo è cosa buona e giusta – in verità, anche fare poche e buone leggi sarebbe cosa buona e giusta. E, allora, perché rallentare inutilmente i lavori di 630 deputati con un parere non vincolante del Senato? C’era bisogno di tenersi un Senato sempre in trasformazione (dal momento che consiglieri e sindaci, una volta decaduti dalla carica, sarebbero decaduti anche da quella di senatori) per bilanciare il potere della Camera – unica ragione sensata – ad esempio nel caso di decisioni sull’appartenenza all’Ue o leggi di revisione costituzionale? Limitando le competenze a questi pochi casi di grande rilievo istituzionale e strategico, si sarebbe potuto, ad esempio, scegliere una formula simile a quella dei delegati che partecipano all’elezione del Presidente della Repubblica pur senza essere parlamentari. Insomma, voler superare il bicameralismo cosiddetto ridondante non è un buon motivo per farlo a qualsiasi costo e secondo logiche contraddittorie.

Bene la clausola di supremazia dello Stato anche sugli ambiti di competenza regionale per tutelare l’interesse nazionale e bene anche il voto a data certa su richiesta del governo (che tanto dispiace ai parlamentaristi ma permette al governo di avere un senso), ma perché aumentare da 50mila a 100mila il numero di firme necessarie per presentare una legge di iniziativa popolare? Non si può essere democratici ad intermittenza, usare l’accusa di antidemocraticità per escludere le forze anti-sistema e poi rendere più difficile alla gente di essere sovrano.

Queste alcune argomentazioni, discutibili quanto i contenuti della riforma che, ripetiamolo, non era né il bene né il male assoluto, ma suscitava troppi dubbi e da troppe parti per poter funzionare e per poterne essere entusiasti. Perciò, senza volersi dilungare ulteriormente nel merito, né voler dibattere su questioni come la parità di genere che la riforma avrebbe dovuto promuovere nei Consigli regionali o i dubbi da alcuni sollevati sul doppio nodo che ci avrebbe stretti all’Europa, al di là anche degli aspetti tecnici, politicamente il “Si” sarebbe stato un voto “europeista” se per Europa si intende questa Unione Europea e sarebbe stato, soprattutto, una delega in bianco a Renzi. Ecco perché, in fin dei conti – lo ribadiamo -, un referendum dai contenuti poco entusiasmanti, impossibili da riassumere nelle poche righe di una scheda ed impossibili probabilmente anche da comprendere a fondo per la maggior parte dei cittadini, non poteva che trasformarsi in un voto politico. Ciò che conta è la consapevolezza di non aver vinto ancora nulla. E che questo “No” sia stato un “No” riflessivo, distante dalla retorica esasperata in stile Marco Travaglio, consapevole della sua funzione e, dunque, anche dei suoi limiti.

Emmanuel Raffaele

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