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Fuga di cervelli? Elogio a chi resta: controstoria di un esodo

by La Redazione
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Roma, 11 nov – L’Italia ormai non è più un Paese per giovani, il problema della “Fuga di cervelli” (ma non solo) ha assunto le dimensioni di un esodo. In tutta Italia, soprattutto nel mezzogiorno, vige il motto “si salvi chi può” ed un risentimento verso il proprio Paese che rasenta l’odio più becero, soprattutto da parte di chi si trova già all’estero. Oltre il danno la beffa di un anatema bello pronto: resti in Italia? Sei un bimbo viziato.

Non è nostra intenzione giudicare le scelte personali, ma ribadiamo un concetto fin da subito: il coraggio è in chi sceglie di restare non in chi fugge. Partire non è mai semplice o indolore, ma vista la situazione attuale nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di giudicare chi invece fa la scelta diametralmente opposta.

I NUMERI DEL DISASTRO

La cosiddetta “Fuga di cervelli” è un danno incommensurabile per il Paese. Nel secondo trimestre del 2016, i giovani nella fascia d’età 15-34 anni sono 12 milioni 681 mila e rappresentano il 21% della popolazione residente in Italia. Lo rivela uno studio condotto dall’Istat che evidenzia come solo il 44,6% ha effettuato almeno un lavoro retribuito e/o non retribuito durante il periodo di studi che gli ha permesso di conseguire il titolo più alto posseduto. Uno su quattro ha un lavoro precario o part time.

I giovani, schiacciati dal precariato e dall’assenza di prospettiva, cercano quindi riparo all’estero. Secondo un Rapporto della Fondazione Migrantes della Cei, nel 2016 se ne sono andati 48.600 giovani di età compresa tra i 18 ed i 34 anni.

POVERA ITALIA, E’ SEMPRE COLPA TUA.

Con questi presupposti, chi può giudicare i connazionali che cercano un futuro dignitoso all’estero? Nessuno, il problema è che in Italia abbiamo una classe politica, succube dell’ingorda Unione Europea, incapace di intraprendere misure efficaci, su Istruzione, Industria e dunque lavoro, per rendere nuovamente attrattivo il Paese.

Molto significativa su questo punto è un intervista condotta da Affaritaliani.it a Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano.

Secondo Resta, infatti, “non bisogna pensare a misure dedicate ad arginare la fuga, quanto a soluzioni che possano rendere il nostro territorio attrattivo per figure di alta professionalità. Questo è un tema non solo di accademia, ma anche di mercato del lavoro. Se poi gli studenti trovano un impiego all’estero, è comunque un buon segno: oggi le nuove generazioni si muovono con facilità, c’è maggiore mobilità. L’importante è non essere costretti ad andarsene perché qui non si trova un posto”.

Per il Rettore del Politecnico di Milano la ricetta per uscire dalla crisi ha due ingredienti principali: istruzione ed imprese. Alla prima viene richiesta una “buona offerta formativa, innovativa e di livello, ma anche spazi adeguati, laboratori sperimentali e naturalmente la possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, prestando molta attenzione alle attività di placement” mentre alle aziende, almeno sui temi dei rapporti con le università, viene chiesto “di guardare al medio termine attraverso tavoli multidisciplinari in grado di affrontare problemi complessi e fare ricerche di scenario.”, ma soprattutto di “disegnare insieme politiche di innovazione che non si fermino alla fase di ricerca, ma che si avvicinino a quella pre-industriale, più legata al prodotto e alla nascita di brevetti e startup”

Ma tutto questo è impossibile senza l’intervento dello Stato. Interrogato sui finanziamenti pubblici Resta è impietoso: “Oltre ad essere sotto-finanziato e spesso rallentato dalla burocrazia, l’intervento pubblico in Italia è eccessivamente frastagliato. Ci sono delle opportunità che passano attraverso i bandi, ma non sempre seguono logiche di medio termine favorevoli allo sviluppo della ricerca. I finanziamenti in Europa sono una buona occasione, ma la competizione è molto forte e servirebbero non solo competenze, ma anche asset adeguati, come i laboratori sperimentali. Inoltre anche in questo caso il supporto pubblico manca: si potrebbe pensare a forme di co-finanziamento che premino e rafforzino la partecipazione a progetti europei. Invece questo, oggi, lo dobbiamo cercare da soli”.

In Europa i finanziamenti sono di tutt’altra entità, “non solo di un ordine di grandezza superiore rispetto ai nostri, ma anche diversamente distribuiti, più selettivi. All’estero puntano su alcune università in particolare, mentre da noi sono il risultato di un meccanismo a pioggia”.

Riassumendo, gli italiani si vedono costretti a spostarsi da un Paese apparentemente senza futuro verso quegli Stati che, coadiuvati da politiche di incentivazione e sviluppo, riescono ad offrire maggiori opportunità in termini occupazionali ma anche remunerativi. E’ bene precisare infatti che molti connazionali, soprattutto i più qualificati, vanno ad occupare posizioni simili a quelle svolte in Italia ma a condizioni economiche decisamente più vantaggiose.

UN ESERCITO DI “HATERS”

Se molto spesso gli italiani si spostano verso una condizione di vita migliore, siamo ancora cosi convinti di poter definire una persona che resta in Italia un bamboccione ed un vigliacco? Se lo scopo è “vivere comodo” spostarsi verso una condizione di maggior agio dovrebbe essere una scelta scontata. Operare diversamente implica una motivazione forte (che va ricercata oltre il guadagno e l’affermazione professionale) ed il coraggio per sostenerla. Ma non tutti la pensano cosi.

L’Italia deve infatti fronteggiare un vero e proprio esercito di “haters” che non perdono occasione per giudicare e denigrare chi sceglie di rimanere nel Belpaese. Per comprendere le dimensioni del fenomeno è sufficiente fare un giro sul più famoso Social Network dedicato al lavoro ed ai professionisti, LinkedIn.

I post dove gli italiani all’estero invitano i connazionali a seguire il loro esempio si sprecano. Non ci sarebbe nulla di male in fondo, una critica costruttiva è sempre utile, ma basta poco perché tutto degeneri.

Immaginiamo un coro di voci unanime, prevalentemente composto da quegli italiani “a cui è andata bene”, che inserisce un fiume di post melensi su quanto sia splendida ora la vita per loro. Poco importa se il tutto è limitato ad esperienze personali di chi magari se n’è andato 15 anni fa in un contesto ben diverso, immediatamente si genera un eco assordante di commenti lamentosi e disfattisti. Ogni piccola voce fuori dal coro viene completamente annullata dall’incessante rumore generalizzato. L’estero è il paradiso, l’Italia l’inferno. Guai ad affermare il contrario.

Ma mentre la frustrazione generale va ad incrementare l’intensità del fenomeno, l’establishment culturale si adopera per ampliare frequenze e raggio d’azione. C’è ad esempio un corposo dizionario di termini, ovviamente anglofoni, per categorizzare gli italiani che proprio non possono o non vogliono lasciare il Paese. Una volta quello più in voga era il tristemente famoso “Choosy”, usato per indicare quei bamboccioni viziati degli italiani, oggi invece sembra essere la fantomatica “Comfort Zone”. Patriottismo, attaccamento alla propria terra, alle proprie radici o anche solo alla propria famiglia sono termini positivi e vanno eliminati, ma se definiamo tutto questo come “Comfort Zone” la musica cambia. Di colpo gli italiani, mossi da sacrosanti principi, che tra mille difficoltà decidono di non rimpolpare le schiere della “fuga di cervelli” trasformano nuovamente in pantofolai.

Chi percorre questa strada spesso deve fronteggiare precariato, stipendi irrisori, burocrazia e pressione fiscale opprimente, abbandono delle istituzione e chi più ne ha più ne metta. Alla faccia del Comfort! Tuttavia alcuni si permettono di definirli pigri e viziati.

Come può un Paese risorgere se è popolato da persone che lo definiscono “un covo di pulciosi”? Un paese “più squallido del terzo mondo”? Dove i genitori, almeno quelli che possono permetterselo, si vantano di aver mandato tutti i loro figli all’estero o di spingerli ad andare? Semplicemente non può. Oltre a cercare motivazioni politiche o economiche dovremmo andare alla radice di questa mentalità e cominciare a riflettere sul nostro senso di appartenenza, ad una nazione ed una comunità. Una nazione, esattamente come un azienda, ha come risorsa più preziosa le persone che la compongono.

Ma le voci fuori dal coro esistono e sono molto più numerose di quello che sembra. Alcune sono flebili, quasi impercettibili singolarmente, alcune eclatanti. E’ il caso di Linda Bianchini, 25enne di Vestone laureata in Scienze fisiche, che è tornata in Italia dopo 6 mesi di lavoro in Inghilterra per il dottorato, svolto presso l’Università degli studi di Milano in collaborazione con l’Istituto Europeo di Oncologia fondato da Umberto Veronesi, sulla radiomica, una nuova e raffinatissima tecnica di identificazione dei tessuti. Il sogno di Linda “è poter dare il mio contributo personale alla ricerca nella lotta contro il cancro”. Ed ha scelto di farlo in Italia, perché “anche qui si può fare ricerca all’avanguardia, ben supportati e in spazi adeguati”.

Che la scelta di Linda sia d’esempio. Finché le migliori menti d’Italia fuggiranno all’estero, la situazione sarà sempre la stessa. Ama il tuo sogno seppur ti tormenta.

Aldo Campiglio

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5 comments

Martino 11 Novembre 2017 - 12:32

Se i giovani talenti non trovano alcuna opportunità qui in Italia perché nessuno gliela offre, cosa devono fare? Rimanere per fare i martiri? Sopravvivere e fare la fame per dimostrare di essere dei patrioti? Glielo date voi del Primato Nazionale un lavoro?

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SiDai 11 Novembre 2017 - 9:21

In Italia, dove un ingegnere e’ pagato meno dell’operaio. No grazie.
Un saluto a tutti i giovani all’estero che ogni giorno pensano all’Italia, pulita e sicura, del boom economico, del catechismo dei cartoni alle due, della biblioteca, del calcetto, delle sagre di paese, del buon vino e cultura e che con click e commenti supportano, per quel poco, anche questo sito.

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Hanslor 12 Novembre 2017 - 4:45

L’Italia è stata rovinata da un branco di cialtroni rossi che portano immigrati per sfruttarli e manda via i suoi figli italiani per sostituire la popolazione italiana…….svegliateviiiiiiii

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Enrico 13 Novembre 2017 - 8:20

All’estero? Andate con le vostre forze. Da laureati in università pubblica o con finanziamenti pubblici? Restituiteci i costi sostenuti da noi tutti, con gli interessi.

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Loz 13 Novembre 2017 - 8:10

Facile fuggire, facile lasciare agli altri la responsabilità di creare qualcosa in un Paese dove si sputa sulla storia, ci si vergogna di sé stessi in un’eterna esterofilia, senso di colpa e terzomondismo…poi però, quando questi “cervelli” hanno bisogno di cure mediche tornano tutti a casa, godendo del lavoro altrui, in quell’Italia che tanto odiano. Tanta fortuna a loro e speriamo non tornino.

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