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Investimenti e protezionismo: la Cina ci batte anche nelle startup

by Salvatore Recupero
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Pechino, 26 nov – Se fino ad oggi il business delle startup è stato monopolio degli Usa, a breve le cose potrebbero cambiare completamente. I cinesi, infatti, nel giro di qualche anno potrebbero scalzare gli americano dal gradino più alto del podio. Questo è quello che è emerso da un grafico del sito VisualCapitalist che racconta bene quali sono i Paesi che comandano nel tech.

La Cina può contare su molte startup ad alta capitalizzazione. Solo per fare qualche esempio possiamo citare Didi Chuxing, la Uber cinese, nata nel 2012 e vale 50 miliardi (non male visto che la multinazionale più odiata dai tassisti ha un valore di sessantotto miliardi). Xiaomi, il quinto produttore di smartphone a livello globale, vale quarantotto miliardi ed è nata solo nel 2010. Lu.com, un marketplace finanziario creato nel 2011, vale 18,5 miliardi. Ciò che colpisce maggiormente della mappa di VisualCapitalist è lo scarso peso di imprese europee e soprattutto italiane. In Europa se ne contano meno di una decina, tra cui i più famosi sono Spotify (Svezia) e Blablacar (Francia).

In Italia questo modello d’impresa stenta a decollare: sono appena 135 quelle passate alla fase successiva di crescita (lo scaleup) su 4.200 censite in Europa. L’Italia è undicesima in una classifica dominata dal Regno Unito (1.412 imprese). Se però confrontiamo il dato alla dimensione del paese e della sua economia, precipitiamo al penultimo posto per densità, con 0,2 imprese ogni centomila abitanti, e all’ultimo per finanziamenti raccolti, novecento milioni di euro pari allo 0,05% del Pil.

Tornando alle startup cinesi, qual è il segreto del loro successo? Semplice, Pechino ha deciso di fare un preciso piano d’investimento pluriennale e al contempo di attuare una politica protezionistica. Nel 2014, il premier Li Keqiang, parlando al Summer Davos, annuncia un piano denominato “Imprenditoria e Innovazione di Massa”. Il risultato è stato sorprendente: secondo le statistiche del SAIC (State Administration for Industry and Commerce), tredici milioni di nuove imprese sono nate dal marzo del 2014 ad oggi. Di queste, il 94,6% sono private: il tasso di crescita parla di 15,600 nuove imprese al mese (2017). Il gigante asiatico, però, non si accontenta e rilancia. Durante l’apertura dell’ultimo Congresso del PCC (che si è svolto dal 18 al 24 ottobre scorso), il Ministero per l’Industria e l’Information Technology ha comunicato che stanzierà altri 1,5 miliardi di dollari nei prossimi tre anni a sostegno dello sviluppo di progetti che rientrano negli obiettivi del piano “Made in China 2025”. Si tratta di un programma di innovazione del settore manifatturiero, che punta a investire sulle tecnologie avanzate, dall’intelligenza artificiale alla robotica.

Non è solo questo, però, il segreto della digital economy adattata al socialismo reale. Infatti, i cinesi portano avanti una politica industriale fortemente protezionistica. Facciamo qualche esempio. Di recente mentre Whatsapp si è aggiunta alla lista delle app che in Cina sono state bloccate, WeChat, (l’applicazione di messaggistica istantanea con più utenti nel paese) continua a crescere a dismisura. Mettere al bando le società straniere significa dare un impulso forte a quelle che si trovano all’interno delle frontiere. All’inizio, le startup cinesi famose in tutto il mondo si sviluppano crescendo nel loro stesso mercato. Per questo il loro primo vantaggio è il dato demografico. Al contrario di quello che avviene in paesi meno popolosi, le imprese cinesi contano su un vasto pubblico di potenziali utenti quindi non sono costretti a iniziare il processo di internazionalizzazione troppo presto. Un altro punto di forza è il fatto che il paese può permettersi prezzi di produzione più bassi. In sintesi le compagnie del gigante asiatico prima di sfidare il mercato globale hanno la possibilità di farsi le ossa. Alibaba, Huawei e Lenovo sono solo alcuni esempi di come competere con successo in Europa e negli Usa. In sintesi è triste constatare che anche nell’economia digitale si ripete lo stesso copione.  E così, mentre la Cina impone il suo modello di startup liberalmaoista, insediando il primato statunitense, l’Europa resta impotente a guardare.

Salvatore Recupero

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Werner 26 Novembre 2017 - 3:56

La Cina fa benissimo ad adottare politiche protezionistiche in economia, sono l’Italia e l’Europa che fanno male a non fare la stessa cosa.

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