Fatto sta che, secondo l’ultima rilevazione Istat, le retribuzioni sono al palo. Ferme ad aprile su base mensile ed in crescita minima su base annua. L’indice si attesta ad un +1.2%. L’andamento tendenziale non toccava, pur nella sua crescita costante, un punto così basso dal 1982 e cioè da quando vengono pubblicate le relative serie storiche. I motivi sono molteplici, a partire dai mancati rinnovi contrattuali: sono più della metà i lavoratori dipendenti con contratto collettivo scaduto, il che si traduce in estrema sintesi nel mancato adeguamento al rialzo delle retribuzioni.
Unico dato positivo – a metà- è il mantenimento del potere d’acquisto. Il pur ridotto aumento delle retribuzioni supera infatti, anche se di poco, la crescita dell’indice generale dei prezzi. Un buon segno solo parzialmente: l’inflazione non é la malattia congenita che la Bce continua a considerare, ma un utile indicatore per apprezzare la dinamicità di un sistema economico. Non vi è crescita senza aumento di salari e, di converso, non vi è sviluppo senza una sana inflazione.
Piove sul bagnato: ennesima flessione delle vendite al dettaglio, che registrano un drammatico -3.5% sull’anno. Fra i cali più marcati quello dell’alimentare, che si attesta al -6.8% a mostrare che gli italiani risparmiano anche su una delle voci di spesa che è tra le ultime a contrarsi: l’elasticità dei prodotti alimentari è infatti bassa, nel senso che a fronte di una diminuzione del reddito si ha una diminuzione meno che proporzionale di quanto speso per l’acquisto di questi beni. Tutti i segnali della (presunta) ripresa sono specchietti per le allodole. Non è da escludere a questo punto che, di revisione in revisione e per come siamo stati abituati in questi anni, a consuntivo la prevista crescita del Pil si tradurrà, nella migliore delle ipotesi, in una sostanziale stagnazione.
Filippo Burla