Roma, 30 lug – La riforma dei Beni culturali continua a trovarsi al centro di un fitto campo di battaglia. I fronti dei detrattori e dei sostenitori sono variegati e compositi, mossi da motivazioni differenti fra loro. In certi casi i contendenti si trovano su versanti opposti per una lettura diversa della riforma, come nel caso delle Soprintendenze: per alcuni saranno più libere dalla politica, per altri in catene.
In questi giorni è tornato a tuonare contro la riforma anche Antonio Paolucci, leone della savana italiana dei poli museali. Parla del testo di Franceschini come di una “macelleria culturale” che imbastardisce l’arte con l’economia. Il direttore dei Musei vaticani boccia infatti la creazione di pochi grandi musei guidati da manager: “Questa deriva americana, esterofila, mi spaventa – ha dichiarato ad Avvenire – Franceschini insiste sulla necessità di portare a reddito il patrimonio culturale. Io dico che quel patrimonio prima che a fare quattrini serve a creare i cittadini, a fare degli italiani un popolo con una propria identità e specifiche caratteristiche culturali”.
Paolucci indica il territorio italiano come un “museo diffuso”, che cresce spontaneo sotto torri e campanili, vissuto prima ancora che visto e non riducibile a pochi grandi colossi museali. Per questo è ancora più grave la manovra di Franceschini, che non avrebbe coinvolto i conoscitori e i custodi di quel territorio: soprintendenti e storici dell’arte. “Il vero moltiplicatore occupazionale – aggiunge Paolucci – è quello generato dal nostro patrimonio culturale: il bello diffuso che diventa qualità del prodotto italiano”.
Simone Pellico
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