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“V per Vendetta” e la rivoluzione di plastica per very normal people

by Adriano Scianca
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guyRoma, 23 ott – Che c’azzecca un reazionario cattolico inglese del sedicesimo secolo, che dopo la scomunica di Giacomo I da parte del Papa tentò di far saltare in aria il re con tutto il parlamento, con la sollevazione generale dei no tav, no muos, movimenti, migranti, senza casa e chi più ne ha più ne metta? Semplice, un bel niente.

Difficile infatti immaginarsi il povero Guy Fawkes come un ultras dei diritti civili. Eppure la maschera con il suo volto è ormai il simbolo internazionale di ogni rivolta nata sull’orlo dell’indignazione, di qualsiasi protesta antigovernativa, trasposizione negli anni ’10 del terzo millennio di Kefiah e maglia del “Che”.

Tranne che per i casi quasi isolati delle frange più radicali dell’estrema sinistra, nessuno sembra però cogliere le contraddizioni che una simbologia del genere porta con sé o il rischio di rendere tutto più superficiale mitizzando un blockbuster hollywoodiano.

Tuttavia è impossibile negare che queste contraddizioni siano già all’interno del film V per Vendetta (e del fumetto di Alan Moore da cui è tratto). Il “nemico” del nostro eroe mascherato è un visto e rivisto mega dittatore cattivo, che tiene sotto scacco la popolazione con la paura, il controllo dei media (anche se sembra esserci un solo canale, Ray Bradbury nel ’53 era già più attuale) e la repressione poliziesca.

Le caratteristiche peculiari dell’ideologia del partito del “fuoco norreno”, di cui Adam Sutler è una sorte di Fuhrer brontolone, sono la propensione al totalitarismo, la discriminazione nei confronti delle minoranze, il richiamo alla religione. Qualcosa che si avvicina alla degenerazione di un partito populista nordeuropeo immaginata da un liberale o un incrocio tra l’impero del male di Guerre Stellari e il video di “In The Flesh” dei Pink Floyd.

E così il buon ‘V’ con una serie di attentati terroristici e messaggi in diretta tv, cerca di risvegliare le coscienze sopite e impaurite dei suoi concittadini, dandogli un appuntamento per il 5 novembre dell’anno successivo – dress code: maschera di Guy Fawkes – e assalto al “palazzo di inverno”.

In tutto questo l’eroe mascherato è affiancato da Evey, la ragazza che rapisce dopo averle salvato la vita, e che poi, grazie al sacrificio di un presentatore gay non dichiarato, di una lesbica giustiziata dal regime, e a una serie di vessazioni e torture subite proprio dallo stesso ‘V’, capirà di essere pronta a dare la vita per la “rivoluzione”.

Non serve essere dei filosofi o degli analisti politici per capire l’inattualità di un film del genere. In un mondo dove le forme di controllo appaiono sempre più touch, social, bio, cloud, in cui i partiti sono svuotati di ogni significato, in cui le nazioni sono inghiottite dalla globalizzazione, V per Vendetta si scaglia contro il mega dittatore che parla dal mega televisore, che reprime senza vergogna e che lancia ripetutamente slogan nazionalistici. In un mondo in cui il parlamento è svuotato di ogni significato a favore di tutti i tipi di centri di potere e organismi sovranazionali, in cui la religione è costantemente derisa, V per Vendetta propone l’assalto al parlamento e la paura per i “castigatori”.

Nessuna traccia della crisi economica e identitaria che vivono i popoli; del resto alla fine si tratta solo di un film tratto da un fumetto di un autore marxista che aveva ipotizzato un mondo in cui la guerra fosse stata vinta dalla Germania. Il problema è che non sembrano averlo capito gli indignados nostrani (e non), né movimenti che rappresentano un quarto degli italiani come il Cinque Stelle. Questi ultimi il riferimento al 5 novembre di Guy Fawkes lo portano addirittura nel loro simbolo. Niente di sorprendente da parte dei grillini, guardiani di una rivoluzione di plastica, tra leggi contro l’omofobia, la transfobia e baci gay in aula che fanno molto V per vendetta. Anche l’attacco al parlamento li accomuna, solo che tra chi come i cinque stelle “vuole aprirlo come una scatoletta di tonno” e chi come ‘V’ gli manda contro un treno pieno di tritolo non c’è storia.

 

Davide Di Stefano

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