Roma, 2 gen – Primo quarto di secolo per l’Euro, compiuto esattamente nella giornata di ieri, il 1 gennaio 2024, da quel capodanno del 1999 in cui il nuovo conio divenne unità contabile e valutaria per i Paesi membri dell’Unione, pur non entrando ancora in un corso legale comune avvenuto soltanto qualche anno dopo, ovvero nel 2002. Un bilancio disastroso per l’Italia, un Paese che ha rinunciato a quel poco di sovranità che le era rimasta dopo la fine tragica del secondo conflitto mondiale (quella monetaria, appunto), nella prospettiva di un futuro da Paese “terzomondizzato” da valute concesse a prestito, debiti e soprattutto interessi sugli stessi dai quali si sta rivelando a tutti gli effetti impossibile uscire.
Con l’Euro, l’Europa si è “africanizzata”
Non scopriamo certo l’acqua calda sottolineando come la valuta europea abbia portato ben altri frutti ad alcuni soci della sedicente “Unione” (su tutti, la Germania, che pure oggi sta pagando qualche conseguenza in termini di redditi da lavoro), ma al di là di questo è interessante notare quanto tutto il sistema di regole e di vincoli sul bilancio che l’Euro ha “accompagnato” nella sua breve e devastante carriera somiglinino davvero molto a quelli a cui sono soggetti da decenni diversi Paesi appartenenenti alla sfera del continente africano, molti appartenenenti al cosidetto “sistema franco Fca” dominato da Parigi, ma anche a gran parte dell’universo sudamericano: Paesi che, da sempre, sono schiacciati da continui “aiuti” internazionali teoricamente utili ad affrontare le loro sedicenti crisi finanziarie, rigorosamente sviluppate con l’onnipresente Fondo monetario internazionale a fare da sfondo. Il tutto mentre a Washington “annullano” agilmente due default in dieci anni – per mezzo del Congresso – garantendosi da soli la possibilità di fare più spesa. Non è un caso che nell’Africa settentrionale guardino ormai con le antenne ritte a qualsiasi “aiuto” venga proposto dai consessi internazionali per affrontare le proprie crisi economiche. Il caso più recente è quello della Tunisia, Paese entrato in una crisi economica devastante ma molto dubbioso – per usare un eufemismo – della opportunità di accettare a scatola chiusa gli “aiuti” dell’Fmi in pegno delle “solite” riforme da applicare, oltre alle solite, pesantissime condizionalità (quanto tutto ciò vi ricorda le “riforme” che ci chiede contininuamente Bruxelles per “garantirci” il suo aiuto?).
Ebbene, il magico universo dell’Euro ha trascinato i Paesi membri – in particolare, quelli Mediterranei – in un sistema di sovrastrutture economiche dipendenti del tutto somigliante a quello sviluppato da sempre da molti Paesi appartenenti alla cosiddetta area della “decolonizzazione”, rendendoci praticamente schiavi di un vincolo esterno perenne, in grado di aggravarsi ad ogni nuovo accordo ad esso più o meno direttamente legato.
Le catene si approfondiscono
Più si va avanti più le catene si fanno stringenti. Siamo partiti con dei vincoli sulla moneta che ben conosciamo. Al quale abbiamo accompagnato i ben noti parametri di Maastricht, “in via di riforma” adesso, ma verso una strada ancora più rigida, ancora più struttturale, in grado di chiedere al nostro Paese “aggiustamenti” ai bilanci ancora più rigorosi. Tutta materia, per usare espressioni semplici e dirette, ostativa alle possibilità di scelta di investimento pubblico, di pianificazione industriale, di banalissime operazioni di finanziamento che uno Stato non dovrebbe neanche pensare di dover affrontare. A meno di non essere africanizzato o terzomondizzato, per l’appunto. Perché nei continenti sudamericani o africani, questo magico mondo di debiti infiniti da inseguire, di soldi da restituire praticamente all’infinito, di sviluppo economico stroncato sul nascere, beh, lo conoscono fin troppo bene. E ne hanno pagato a lungo le conseguenze. Noi europei siamo solo al principio di questa tragedia dell’irrilevanza politica ed economica. Un principio ben rappresentato dai vencinque anni dell’Euro, la moneta che appartiene a tutti, tranne agli italiani. Quanto ci sia ben poco da festeggiare è perfino una banalità.
Stelio Fergola