Varese, 18 dic -“Considerando la pallacanestro un discorso dove, appunto, la meritocrazia vige, io dovevo diventare forte per poter divertirmi e quindi secondo me se sei bravo hai la palla in mano, se sei bravo ti diverti, se non sei bravo non devi avere la palla in mano. E scusate il termine, ma son cazzi tuoi”. Signori e signore Gianmarco Pozzecco, in un estratto dalla trasmissione “Sfide” andata in onda, qualche anno fa, su Rai 3. Uomo di confine, nato a Gorizia, ma cresciuto a Trieste crocevia di cultura ed estrosità, immersa nell’architettura, perfetta, austera e austriaca, aspetto, quest’ultimo, che stride con il Poz, playmaker funambolico con più punti che assist nelle mani. Il friulano inizia a muovere i primi passi da professionista a 19 anni, nella stagione 1991-92, a Udine nella Rex, in A2, rimane nella sua terra per un’altra stagione, poi gli si spalancano le porte della serie A, a Livorno, nella Baker. Anni di gavetta per il preludio e il raggiungimento del suo Eden, Varese.
Stellata – E’ il 1994-95 e la “Mosca atomica”, soprannome affibbiatogli dai tifosi biancorossi, inizia la sua avventura in quel di Varese, con sponsor Cagiva. Il collaudo è lento e graduale, nel 1997 arriva sulla panchina Carlo “Charlie” Recalcati, intanto per Pozzecco si aprono anche le porte della nazionale, ma il suo tempio è “Città Giardino” e i suoi discepoli sono sempre di più. Nel 1998 arriva anche la semifinale, poi persa, di playoff contro la Kinder Bologna, le “Vu nere”, dove in un’epica gara tre, Pozzecco segna 33 punti e Andrea Meneghin il canestro della vittoria. Ma, la particolarità sta nel fatto che durante la trasferta la squadra si fermò a Parma, alla fiera del formaggio. Il “Menego”, allergico ai latticini, si rifugia nel vino e la “Mosca atomica” lo accompagna. Il finale lo sapere già. Arriva il 1998-99. Recalcati ha un quintetto di potenziale e la panchina lunga. Varese si chiama “Roosters”, tradotto “galletti da combattimento”, niente sponsor, solo un nomignolo che conquisterà l’Italia. Il gruppo è cementificato, il Poz è affiancato da Alessandro De Pol, altro triestino, Giacomo Galanda, di Udine detto “il sosia più alto di Jovanotti”, Andrea Meneghin, figlio di Dino leggenda della palla a spicchi, Velijko Mrsic, croato, e da Cristiano Zanus Fortes, veneziano di origine friulana, per citare i più rappresentativi. Una combriccola di triveneti alla caccia del decimo scudetto varesotto. La squadra è di livello, ma nessuno si aspetta che il dominio delle bolognesi e di Treviso possa essere messo in discussione. Eppure il campionato finisce e Varese chiude la stagione regolare al secondo posto. Ai quarti incontra la Pepsi Rimini, 3-1, in semifinale, di nuovo, contro la Kinder Bologna. Rivincita, 3-1. La finale è contro Treviso. In piazzale Antonio Gramsci, palazzetto Masnago, arrivano i biancoverdi. Recalcati e i suoi ragazzi azzanno al collo i veneti. Le prime due gare, vanno a Varese 77-71, la seconda 71-74 al domicilio trevigiano. La sera dell’11 maggio 1999, i lombardi hanno la palla per chiudere la serie e scolpirsi sulle canottiere la stella, simbolo del decimo scudetto. Treviso parte forte, parziale 9-18 dopo 7 minuti. Poi lo sliding doors del match. L’argentino, Marcelo Nicola, rifila una gomitata al Poz sul naso, che gli si frantuma. Fortes, detto “Zus” alto 2,06cm per 112kg, fa fatica a contenere la reazione del playmaker varesotto, 180cm per 74kg, pronto a farsi giustizia da solo. Pozzecco esce e si fa medicare, mentre De Pol e compagni iniziano la rimonta. Con i tamponi, e la divisa sporca di sangue, a 13’19” dalla fine della gara il friulano torna in pista. Serve però un colpo, una mazzata, la “giocata” che sparigli e spezzi le gambe agli avversari. Si palesa. Mrsic ha la palla in mano, scarica al Poz, che da otto metri non ci pensa due volte, bomba, e il cotone avvolge il pallone di cuoio. La magia. Pozzecco con la testa tinta di rosso inizia a dimenarsi, sembra Jerry Lee Lewis, un tarantolato. Ma è magia mista a follia, signori e signore e ognuno la interpreta come vuole. La partita si chiude e Varese vince. Decimo scudetto.
“Pozzecco, chi?” – Il 1999 è anche l’anno dell’Europeo. La panchina è occupata da Bogdan Tanjevic, che reputa Pozzecco un fenomeno da circo, e gli chiude le porte della nazionale. Quella nazionale, per inciso vincerà la competizione, in finale con la Spagna, con Gregor Fucka MVP. Passano gli anni e il classe 1972, lascia Varese per Basketcity, Bologna. Sponda Fortitudo. Nel 2005 viene cacciato da mister Jasmin Repesa, dopo che in un time-out, strappa la lavagna degli schemi dalle mani del coach. Quell’anno la Fortitudo vincerà il titolo mentre lui, in esilio prima in Spagna e poi in Russia. Ma c’è un altro evento, nel 2004, che consegna Gianmarco Pozzecco alla leggenda. Parliamo delle Olimpiadi. Ma c’è spazio, prima, per una partita che tutti gli appassionati di pallacanestro portano con se, U.S.A-Italia, il 3 agosto 2004 a Colonia. E’ la vigilia della manifestazione a cinque cerchi e gli azzurri sfidano il dream team di LeBron James, Dwayne Wade e Carmelo Anthony. Sembra la solita storia già scritta, ma invece è un nuovo episodio di Davide contro Golia. L’Italia domina in lungo e in largo ed il Poz ha una magia in tasca da regalare ad Allen Iverson. Siamo nel quarto ed ultimo periodo, 83-63 per gli azzurri. Bulleri a 3:13 dalla fine serve la “Mosca atomica”, che parte, va in penetrazione, Iverson lo guarda accenna la difesa, ma è ormai troppo tardi. Appoggio al tabellone, fallo e inchino al pubblico. Con “minaccia”, successiva, di Sasha Danilovic sul copyright dell’inchino. Il finale 95-78. Qualche tempo dopo ad A.I. 3 verrà chiesto, in un’intervista, se si ricordasse di Pozzecco e lui rispose “Pozzecco, who?”, basta rileggere qualche riga più su, per capire di chi stiamo parlando. Poi, e poi, arrivano le Olimpiadi. Alla guida non più Tanjevic, ma il padre sportivo del friulano, Recalcati. Che, nonostante tutto lo porta in nazionale, perché un’insensata ventata di allegria e follia serve sempre per vincere. L’Italia, piace ingrana la marcia e va a giocarsela in semifinale contro l’armata lituana, campione d’Europa in carica. Sembra, anche in questo caso già tutto scritto, ma quando il Poz si alza dalla panchina non ce non ce n’è per nessuno. Cambia il volto della gara. La stranezza è che questa volta difende anche, difesa suo storico tallone d’Achille, Stombergas commette, addirittura, due sfondamenti sul play italiano e tutti i corti lituani se la devono vedere con lui. Ma ancora una volta è con la palla in mano che da il meglio di se. La partita è 34-31 per la Lituania. Il pallone rimbalza sul ferro, Pozzecco vola a rimbalzo, anticipando Chiacig, 2,10cm, e Javtokas, 2,11cm, “poi corro in contropiede, ti fermi da tre punti che è una delle cose più difficili, fai canestro”. La benzina nel motore che serviva, l’Italia non sbaglia più nulla, tutti in finale contro l’Argentina. Poi il Poz contro i latino-americani, parte bene, ma dopo un fallo si scalda troppo, perde, ancora una volta la testa, litiga con tutti, Recalcati lo richiama in panchina per “regalargli” ancora pochi minuti. “Non ho mai capito perché, cazzo, Charlie non, ma fatto più giocare”. Vince l’albiceleste, ma rimane un argento storico per la palla a spicchi azzurra.
Mai domo – Gli anni passano, ma la voglia di sorprendere no. Dopo un biennio lontano dall’amata Italia, torna, e va in Sicilia. Destinazione Capo d’Orlando, provincia di Messina, nell’annata 2007-08. E’ il canto del cigno, per il Poz giocatore, un’ultima sfida da vivere con il cuore in gola. L’asso triestino guida i siculi, di Meo Sacchetti, all’approdo per la prima volta nella loro storia ai playoff scudetto, dove ai quarti incontra Avellino. Contro i campani la serie finisce 3-0 per i biancoverdi, è il 15 maggio 2008 e va in scena l’ultima recita. Mancano poco più di tre minuti alla fine dalla partita, gli avellinesi hanno i piedi in semifinale, e Sacchetti concede il tributo dovuto a Pozzecco. Lui si tira via la canotta dell’Orlandina e sotto appare la scritta “Grazie per avermi sopportato”. Sono solo lacrime e applausi, sono 30 anni di basket, giocato che finiscono, ma l’amore no, l’amore della gente per quel folle con i pantaloncini non può certo finire. Le telecamere di Sky indugiano sulla sua figura, mentre abbraccia compagni e avversari, con gli occhi velati, è il tripudio. Lui chiede scusa e benedice chi lo ha ostracizzato per averlo reso l’uomo e il giocatore che è mentre Paola Ellisse, commentatrice della piattaforma pay-per-view, tratteggia l’elogio per la “Mosca atomica”, sulle note della sua carriera. Del resto il Poz, non si è mai arreso, ha provato anche a sfondare le porte del Nba, ma per sua stessa ammissione senza la giusta convinzione, vestendo la casacca dei Toronto Raptors, per la Summer League del 2001 a Salt Lake City nello Utah. 5 partite 5 per convincere gli U.S.A. interi dopo aver strappato a Tim Duncan due anni prima, durante il Mcdonald’s Open tra i San Antonio Spurs e Varese, le parole “quel ragazzo coi capelli rossi mi ha impressionato”. Prima ruba, voce “stolen” nelle statistiche a stelle e strisce, un pallone a Micheal Jordan, poi dopo alcune partite di rodaggio, tra alti e bassi, si rende protagonista di uno dei suoi marchi di fabbrica. Prima alza la voce e sbraita dopo un fallo subito, l’allenatore della squadra avversaria gli intima “Taci! Questa è la NBA”, Pozzecco allora fa fare qualche giro alla lancetta dei secondi, conquista palla, arresto e tiro da 8 metri, solo cotone, si gira verso il coach e gli sussurra “Ma guarda un po’, questa vale tre punti anche qui?”. Il delirio, poi chiude il ciclo di gare con 21 punti in 20 minuti contro gli Spurs. Ma, se ne torna a casa per regalare al pubblico ancora parecchie gemme. Ora allena, prima a Capo D’Orlando e da quest’anno nella sua Varese. E’ ancora l’emblema della palla a spicchi italiana, capace di offuscare le imprese di Marco Belinelli e soci, per le gesta in e fuori dal campo. Lo scorso anno, quando ancora era in Sicilia, rese memorabile una sua sfuriata contro l’allenatore di Ferentino, con le parole, “perché io non permetto a nessuno di mancarmi di rispetto quando perdo, perché mi girano i coglioni” pugno sul tavolo e saluto, cordiale, questo si, ai giornalisti in sala. In questa stagione l’esordio, con vittoria, nel derby contro Cantù e l’esultanza da forsennato che ricorda tanto quella dopo la “bomba”, in finale scudetto, contro Treviso e l’espulsione per doppio tecnico contro Milano; con camicia strappata, bestemmie e incitamento alla folla del Masnago, ora PalaWhirlpool, che rimane una delle scene indimenticabili dello sport italiano targato 2014. Ha mantenuto la stessa verve dal campo alla panchina, ma ha introdotto 6 comandamenti: 1) Rispetta e ama i tuoi compagni; 2) Non essere in ritardo; 3) Vai fuori quando vuoi, mai prima di una partita; 4) Dimmi tutto; 5) Sono qui per aiutarti a realizzare il tuo sogno; 6) Divertiti. Che sono il chiaro e lo scuro della sua carriera, lui genio e sregolatezza, animale da parquet, ma lascivo negli allenamenti, con un cuore immenso che lo ha tramutato in Dio per alcuni e il miglior peggior nemico per Cantù. Pozzecco non ha vie di mezzo un po’ Zeman, un po’ Mazzone, con un cuore grande e la voglia di divertirsi di quando a Trieste sognava palleggiando i primi palloni. In una recente intervista, all’emittente svizzera “RSI”, ha confidato “io rischio sempre”, l’emblema di una vita vissuta a cento all’ora, anche oggi a 42 anni per rimanere in equilibrio nel mondo senza vertigini, perché in fondo “la vera vertigine è l’assenza di follia”, così come disse Emil Cioran, e di follia il Poz ne è maestro e discepolo.
Lorenzo Cafarchio