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Unioni civili e “obbligo di fedeltà”: è questione di mala fides

by Adriano Scianca
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fides-bigRoma, 27 feb – Chi l’avrebbe mai detto che nel 2016 l’attualità politica sarebbe stata dominata da una parola come “fedeltà”, sia pure per negarne l’obbligo agli omosessuali uniti in unione civile. Dibattito spassoso, perché se da una parte le associazioni gay protestano per la certificazione legislativa di un vecchio stereotipo (gli omosessuali come individui promiscui, libertini, incapaci di relazioni serie e durature), dall’altra alcuni senatori del Pd, a cominciare dall’ineffabile Cirinnà, propongono ora di abolire il medesimo obbligo anche per gli etero, perché mantenerlo significherebbe rimanere ancorati a una vecchia concezione dei rapporti fra i sessi. Insomma, un bel rompicapo, in cui capire dove sta la correttezza politica sembra impossibile persino per i sacerdoti del pensiero dominante, che infatti dicono cose opposte usando la stessa retorica.

Ma perché è così importante la fedeltà? E, soprattutto, fedeltà a chi, a cosa, perché? Nel matrimonio cristiano, esplicitamente concepito come un male minore rispetto alla fornicazione, laddove la via preferibile ma non estendibile a livello di massa resta l’astinenza, essa ha la funzione di tracciare il perimetro morale al cui interno la sessualità è lecita. Le cose stavano altrimenti a Roma, dove la fedeltà doveva tutelare soprattutto l’autenticità della discendenza (ed è il motivo per cui adulteri e incestuosi non sono condannati in sede morale, ma alla stregua di ladri, ovvero come coloro che rubano il bene più prezioso di un uomo).

Ma, soprattutto, a Roma la fedeltà era un “valore” (il termine in realtà è improprio) che permeava tutta la realtà sociale, politica, economica e religiosa. Fidelitas, a Roma, è l’espressione della fides. “Non vi è sentimento più elevato, più sacro della buona fede”, diceva Dionigi di Alicarnasso. Fides era anche una divinità, che aveva un tempio sul Campidoglio, vicino a quello di Giove Ottimo Massimo. Secondo Dumézil, era “la dea prediletta di Numa”, il secondo re della leggenda, una sorta di doppione saggio, pio, calmo dello scatenato Romolo. Poiché Numa è considerato colui che dette a Roma le sue leggi e i suoi riti, possiamo capire quanto Fides avesse a che fare con l’essenza stessa della romanità.

In latino, il sostantivo fides e il verbo credo sono strettamente legati, con un nodo concettuale che passerà nel cristianesimo, con un significativo slittamento di senso. La fede, per il cristiano, è il credere in qualcosa che va al di là della logica: credo quia absurdum, dice Tertulliano. Ha quindi a che fare con la credenza in qualcosa che non è evidente, che non è visibile. Credenza, peraltro, individuale, privata. A Roma, invece, la fides aveva a che fare proprio con ciò che doveva essere evidente: la qualità di un soggetto che appare “affidabile” rispetto ai suoi comportamenti e alle sue parole. La cosa aveva una dimensione sin da subito comunitaria: parlare di fides rispetto a un eremita sarebbe stato impossibile, poiché essa implica relazione con gli altri. In quest’ottica, un uomo è tenuto a essere fedele in primo luogo a se stesso, ovvero ad agire conformemente all’immagine del cittadino onesto e valoroso che ci si aspetta che egli incarni.

 

Non è un caso se noi parliamo di “fede in Dio” mentre i Romani parlavano di “fede degli Déi” (fides deorum). Gli Dèi sono i sommamente affidabili, coloro di cui ci fidiamo e in cui confidiamo. Sono anche coloro che chiamiamo a testimoniare la nostra, di buona fede. E se, facendolo, mentiamo, siamo puniti non per un peccato morale, ma per un crimine cosmico: giurando il falso in nome degli Dèi abbiamo rotto la pax deorum. L’esperienza romana della realtà è intessuta di questa trama di fede e fedeltà. Ne nasce un ordine comunitario che è il riflesso di un ordine cosmico. Ma oggi mancano entrambi, quindi dobbiamo accontentarci delle reciproche ipocrisie di chi non sa essere fedele neanche a se stesso, figuriamoci agli altri, per tacere degli Dèi.

Adriano Scianca

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