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Renzi, Israele e le nostre radici (con replica di Giuliano Imperatore)

by Adriano Scianca
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renziRoma, 22 lug – E d’improvviso decenni di decostruzione furono cancellati. Radici? Certo, che c’è di più chiaro ed elementare? Matteo Renzi, si sa, ha un’innata propensione a far finta di tagliare i nodi di Gordio con tweet, battute e giochi di parole. E, nel suo farla sempre troppo semplice, talora porta allo scoperto rimossi insospettabili.
Accade così che, durante la sua prima visita ufficiale a Tel Aviv, il primo ministro italiano se ne esca con una frase come: “Israele è il Paese delle nostre radici, delle radici di tutto il mondo e anche il Paese del nostro futuro”.
E stupisce davvero l’improvvisa facilità, immediatezza, intuitività con cui, a un certo punto, si può parlare di “radici”. Pochi concetti come quelli di radice e origine sono stati sottoposti a un attacco concettuale tanto radicale. In filosofia, chi parla di radici è un ingenuo metafisico, in politica uno spregevole populista xenofobo.
L’Unione europea, qualche anno fa, si è avvitata in una discussione emblematica proprio sulla questione delle radici da riconoscere in una Costituzione comune che non c’è mai stata. Orbene, quali dovevano essere? Illuministe e liberaldemocratiche, per alcuni. Giudaico-cristiane, per altri (che anticipavano quindi l’improvvida sparata renziana). Qualcuno, sommessamente, faceva notare che forse le radici dell’Europa potevano persino essere… europee (il volumetto collettaneo delle Edizioni di Ar, Il gentil seme, resta di gran lunga il risultato migliore di quel dibattito).
Ma a veder bene, parlare di radici dalle parti di Tel Aviv, se non è proprio parlare di corda in casa dell’impiccato, poco ci manca. Da decenni quella striscia di terra che si affaccia sul Mediterraneo è infatti contesa da due popoli e da almeno tre religioni, in una guerra che è, al solito, molto prosaica, ma da cui si dipana anche un conflitto delle genealogie. Chi c’era prima? Chi ha diritto a starci ora? Cosa raccontano quelle mura, quelle vie, quei templi, che ogni volta parlano almeno tre lingue differenti?
Chi abbia radici in Israele è cosa di cui si discute, con parole, sassi e cannoni, dal 1948 (e anche prima). Ma Renzi ha già risolto la questione: lì affonderebbero addirittura le nostre, di radici. Non ditelo ai palestinesi, per carità, fanno già fatica a convivere con le pretese messianiche di Netanyahu e soci, figurarsi se ora ci inventiamo qualche rivendicazione anche noi.
Renzi, del resto, ha fatto qualcosa di più. Non ha detto solo che in Israele sono le nostre radici. Ha detto che lì ci sono quelle “di tutto il mondo”. In questo caso è agli israeliani che non bisogna farlo sapere, sia mai che prendano la cosa alla lettera e accampino pretese anche su Roma, Parigi, Berlino, Madrid, e poi Los Angeles, Mosca, Tokyo…
Ma cosa significa, poi, “le radici di tutto il mondo”? Nel nostro stupore di fronte a un’affermazione del genere riecheggia forse, si parva licet componere magnis, quello dei primi eruditi pagani che si trovarono di fronte all’arroganza monoteista.
Flavio Claudio Giuliano così replicava ai “galilei” – come egli aveva ordinato di chiamare i cristiani, proprio per “rilocalizzare” un culto che invece pretendeva di dirsi universale – circa l’esistenza di un solo Dio per tutta l’umanità (guarda caso proprio quello che si era rivelato a loro):
“Se Dio non era soltanto dei giudei, ma anche delle genti, perché soprattutto ai giudei ha mandato il dono della profezia e Mosé e il crisma e i profeti e la legge e le assurdità e le mostruosità dei loro miti? […] Se è Dio di noi tutti, e di tutti ugualmente demiurgo, perché ci ha trascurati? Conviene dunque pensare che il Dio degli ebrei non sia affatto il generatore di tutto il mondo e non abbia il dominio dell’universo, ma ritenere che sia limitato, come dicevo, e che, avendo un potere circoscritto, sia un dio come tutti gli altri.
In una visione pagana e tradizionale, invece, “il demiurgo è comune padre e re di tutti quanti, mentre le restanti funzioni sono state da lui assegnate a Dei etnarchi dei popoli e protettori di città, ciascuno dei quali governa in conformità con se stesso la parte che ha avuto in sorte”.
Per Giuliano Imperatore, l’idea che tutti i popoli abbiano origine in un’unica terra, secondo i dettami di un’unico dio, era semplicemente illogica e arrogante. Gli faceva eco il filosofo medioplatonico Celso, che scriveva: “Dunque i giudei, che sono diventati un popolo a sé e si sono dati delle leggi secondo i costumi del luogo, conservandole al loro interno ancora oggi e osservando un culto quale che sia, ma comunque ancestrale, si comportano alla maniera di tutti gli altri uomini, ognuno dei quali riserva onori ai costumi aviti, comunque questi siano stati introdotti. Tale differenziazione sembra corrispondere non solo al fatto che gli uomini si sono proposti delle leggi differenti le une dalle altre e perché è necessario che, in ogni Stato, i cittadini seguano le leggi stabilite; ma ancora perché è plausibile che in principio le diverse contrade della terra siano state ripartite come tanti governi fra altrettante potenze che le amministrino ciascuna a suo modo, e che in ogni regione tutta va bene quando si governi secondo le regole che quelle hanno istituito. Così, vi sarebbe empietà ad infrangere le leggi che sono stabilite dall’origine”.
Ridurre la pluralità all’unità, desertificare la differenza rendendola univoca, ecco l’origine del male. Non è solo sbagliato per via delle conseguenze funeste in termini pratici: è empio nei confronti dell’architrave sacrale della civiltà, che assegna a ogni terra un popolo, una cultura e una divinità. A chi compie questo peccato, il minimo che possa capitare è poi di finire a dire “Devid di Maichelangelo”.
Adriano Scianca

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1 commento

nota1488 23 Luglio 2015 - 4:07

L’imbecille dalla voce infantile ed effeminata emette suoni solo per come “suonano” alle orecchie degli zombie del pensiero unico, suoni senza alcuna dignità del lògos, senza alcun senso, come la sua stessa figura grottesca.

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