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La battaglia per Mosul è l’inizio di una nuova guerra civile?

by Mattia Pase
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fronte-mosulBaghdad, 23 ott – A Sirte, in Libia, si combatte ancora. La battaglia per la liberazione della cittadina affacciata sul Mediterraneo, occupata l’anno scorso dalle milizie dell’Isis, è iniziata a maggio e non è ancora finita. Le forze dello Stato Islamico erano stimate, all’inizio dell’attacco, in circa duemila uomini armati, impossibilitati a ricevere rinforzi e a operare una difesa in profondità, stretti fra il mare e le forze assedianti. A Mosul, in Iraq, i miliziani dello Stato Islamico sono, a seconda delle stime, fra i sei e i diecimila, e hanno avuto due anni e mezzo per prepararsi militarmente all’offensiva dei Peshmerga curdi e dell’esercito iracheno. Di conseguenza, i vertici della coalizione internazionale che all’inizio della scorsa settimana ha assaltato la più grande città che l’Isis abbia mai controllato hanno parlato di una battaglia che durerà settimane, se non mesi. E le prime fasi dello scontro – che in teoria sarebbero dovute essere le più facili, visto che si tratta di conquistare villaggi disabitati e difesi da poche decine di jihadisti – sembrano dare ragione alle stime più pessimistiche.

La linea del fronte si è spostata di pochissimi chilometri, negli ultimi cinque giorni, e l’Isis si è addirittura permesso il lusso di un contrattacco a sorpresa su Kirkuk, in pieno territorio curdo, operato da alcune decine di uomini che hanno tenuto in scacco per due giorni le forze curdo-irachene. L’esito della battaglia non è in discussione, vista la sproporzione fra le forze in campo, e l’appoggio aereo occidentale di cui godono gli attaccanti. Quello che è in discussione è quanto ci vorrà, per ripulire Mosul, e al costo di quante vite. Ma l’aspetto più inquietante di quella che viene definita come la battaglia finale per l’eliminazione dello Stato Islamico dall’Iraq è il sospetto che questa campagna militare sia in realtà, più che l’ultimo capitolo della guerra alle bande islamiste di Al Baghdadi, il primo di una nuova, e stavolta definitiva, guerra civile irachena, che potrebbe portare a una ridefinizione dei confini, a cent’anni esatti dagli accordi Sykes Picot che hanno dato al Medio Oriente l’aspetto che conosciamo.

Al di là della fragile linea di faglia che separa sciiti e sunniti, nel nord dell’Iraq è la componente curda ad avere assunto un ruolo fondamentale nelle dinamiche geopolitiche, con un percorso di progressiva autonomia che sarà sempre più difficile negargli, in futuro. Le colonne di Peshmerga curdi che oggi combattono a Mosul sventolano, e indossano, solamente la bandiera biancorossoverde del Kurdistan, e sono trattate dagli Iracheni più come un esercito alleato che come connazionali. L’aspirazione alla completa indipendenza è palese. L’elemento decisivo, tuttavia, potrebbe venire dal cambio di strategia di Ankara, nemico storico di qualunque forma di entità statale curda, che potrebbe rivedere la sua posizione in materia. Non si tratta di dichiarazioni provenienti dal governo turco, ma è un tema che è stato sviscerato dal Daily Sabah, quotidiano di Istanbul vicinissimo (in altre parole, una via di mezzo fra un think tank e un megafono propagandistico) al partito del presidente Erdogan, che in un editoriale ha esplicitamente scritto che la Turchia dovrebbe prepararsi all’eventualità di uno Stato Curdo (da trattare con spirito di “fratellanza”, ha aggiunto testualmente l’editorialista) nel territorio dell’Iraq settentrionale. Si tratta di un’indicazione di portata epocale, che per la Turchia comporterebbe molti rischi, ma anche molti vantaggi. In primo luogo perchè il partito dominante, nel Kurdistan iracheno, è il Pdk guidato da Barzani, acerrimo nemico del Pkk, che invece rappresenta gran parte dei Curdi di Turchia, a cui sono legati anche i Curdi siriani che Ankara sta combattendo, oramai apertamente, nel nord della Siria. Il sostegno a un Kurdistan indipendente guidato dal clan dei Barzani sarebbe per Erdogan un alibi per dimostrare che la guerra condotta internamente contro le forze del Pkk non è assolutamente una guerra fatta contro i Curdi in quanto tali, e sarebbe altresì un modo per pesare di più nel mondo arabo, in linea con il progetto neo-ottomano del Presidente.
Inoltre, nel nord dell’Iraq vive una cospicua minoranza turkmena, che in uno Stato curdo alleato della Turchia si sentirebbe più tutelata di quanto non sarebbe in un Iraq a guida sciita, e che potrebbe agire da quinta colonna all’interno del Kurdistan qualora questo si discostasse da una linea di amicizia nei confronti di Ankara.

L’altro grande attore dello scacchiere è naturalmente l’Iran, che determina le politiche di Baghdad, influenza pesantemente quelle di Damasco, e ha un peso rilevante nelle vicende libanesi, grazie alla testa di ponte costituita da Hezbollah. E tutto sommato anche l’Iran potrebbe trovare questa dello Stato curdo nel nord dell’Iraq un’idea interessante. Perchè anche Teheran ha potenziali amici fra i Curdi iracheni (la minoritaria ma potente Unione Patriottica del Kurdistan guidata dal clan Talabani) e perchè staccare quel territorio dal resto dell’Iraq renderebbe quest’ultimo un Paese quasi integralmente sciita, scongiurando così qualsiasi rischio di ritrovarsi a Baghdad una leadership sunnita, come accaduto nei lunghi anni del dominio baathista di Saddam Hussein. Se davvero Turchia e Iran si accordassero per dare uno Stato ai Curdi, né gli Stati Uniti, né la Russia, né tantomeno l’Europa avrebbero qualcosa da obiettare. Resterebbe naturalmente aperta la questione siriana, resa addirittura più critica dalla potenziale minaccia rappresentata dalle migliaia di uomini dell’Isis che si riverserebbero in Siria in fuga dall’Iraq dopo la caduta di Mosul (e per evitarlo, alcune milizie sciite irachene starebbero preparando un attacco a Tal Afar, a ovest di Mosul, che impedirebbe questa operazione).

Tuttavia, nei piani strategici iraniani l’obiettivo primario non c’è tanto il mantenimento dell’unità territoriale siriana, quanto piuttosto la creazione di una fascia di territorio che vada, senza soluzione di continuità, da Beirut in Libano ad Harat in Afghanistan. Una specie di “confederazione” sciita, naturalmente guidata dagli Ayatollah di Teheran, che controlli – oltre all’Iran – tutta la fascia settentrionale del mondo arabo. Nel caso della Siria, la parte che è di vitale interesse per l’Iran è la fascia centro-meridionale, oltre ad Aleppo e al Governatorato di Latakia. Il nord del Paese, (ma qui entriamo nel campo delle speculazioni geopolitiche) potrebbe invece essere superfluo, anche perchè difficilmente riconducibile sotto il pieno controllo di Damasco, e pertanto anche i Curdi di Siria hanno qualche carta da giocare nelle trattative che prima o poi decideranno del futuro dell’area. Oltretutto, regalare al nascituro Kurdistan qualche cantone siriano avrebbe il vantaggio di indebolire la posizione egemone del Pdk di Barzani, rendendo il nuovo Stato da un lato meno “ossequioso” nei confronti della Turchia, e dall’altro incapace di una politica unitaria che possa recare fastidio ai Paesi confinanti, Iran incluso. Mutatis mutandis, uno “stato cuscinetto”, come andava di moda in Europa nei secoli scorsi, quando le grandi potenze non si mettevano d’accordo su confini e reciproche sfere di influenza.

Mattia Pase

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