Roma, 4 mar – Veniva pubblicato il 3 marzo del 1986 “Master Of Puppets” terzo album dei californiani Metallica e capolavoro indiscusso di tutta la corrente thrash metal in voga in quegli anni. Sono passati trent’anni ma la forza devastante di quest’opera è ancora fresca e vigorosa come fosse appena uscita. Sta tutta qui la capacità di un album musicale di restare eterno: perdere la dimensione del tempo per essere proiettato a memoria futura come un’opera seminale e intramontabile. “Master Of Puppets” è lo specchio della società degli anni Ottanta, e in parte anche di quella attuale. Contestazione, rabbia, violenza e rivincita, ma anche tristezza, malattia e rassegnato annichilimento, tutto coi toni giusti e sottolineato con espressività dalle musiche di un genere che, solitamente, espressivo non lo è.
Il 1986 fu un anno particolarmente fertile per la montante scena thrash metal. L’apice di questo sottogenere dell’heavy metal, nato agli esordi del decennio all’interno della Bay Area (l’area metropolitana che circonda la baia di San Francisco), fu raggiunto con la contemporanea pubblicazione di “Reign in blood” il capolavoro degli Slayer, di “Peace sells… but who’s buying” dei Megadeth dell’ex chitarrista dei Metallica Dave Mustaine, di “Beyond the gates” dei proto death metallers Possessed ma soprattutto di “Eternal devastation” e “Pleasure to kill” dei teutonici Destruction e Kreator. Un anno indimenticabile per chi lo ha vissuto. Un anno che ha consentito di portare nel gotha della musica che conta un intero genere musicale sorto proprio agli inizi degli anni Ottanta grazie al contributo dei Metallica, Slayer, Megadeth e Anthrax (i cosiddetti “big four”) a cui possiamo anche aggiungere Dark Angel e Exodus. Ma centinaia furono le band che si cimentarono in questa sorta di fusione tra heavy metal tradizionale suonato a ritmi violenti e velocità supersoniche e hardcore punk.
“Master of puppets” entra così a tutti gli effetti a far parte degli album storici della musica contemporanea. Inutile sottolineare la potenza di Lars Ulrich dietro le pelli, l’incredibile tecnica dell’indimenticato bassista Cliff Burton (R.I.P.), la precisione degli assolo di Kirk Hammett, la devastante metodicità dei riff e della voce di James Hetfield. Come pure è superfluo commentare la produzione curata dallo straordinario Flemming Rasmussen in collaborazione con gli stessi Metallica, a dir poco perfetta, senza la minima sbavatura.
L’intro delicata e acustica dell’album ci condurrà subito alla distorsione delle chitarre elettriche. “Battery” parte in quarta con un ritmo forsennato e tanti riff potenti. Veloce e potente ha rappresentato per il tour mondiale che fecero i Metallica il degno preludio ai concerti trita ossa che li contraddistingueva. Un brano trascinante e di sicuro successo.
A seguire la title track “Master of puppets” che ancora oggi rappresenta uno dei brani più famosi composti dai four horsemen. La scuola thrash metal qui si sente tutta: cambi di tempo e riff come se piovesse. La tecnica non è acqua.
“The thing that should not be” riprende i temi di H. P. Lovecraft già abbondantemente trattati nell’album precedente “Ride the lightining” ed è il brano più cadenzato, se così si può dire, dell’intero album.
Mentre si toccano i lidi più melodici con la successiva “Welcome home (Sanitarium)” che tocca i temi della pazzia e della reclusione nei manicomi. Qui ancora una volta i Metallica toccano picchi rimasti irraggiungibili. Le parti di chitarra acustica convivono perfettamente con le sfuriate più thrash e rabbiose.
Il primo lato dell’abum si conclude con il roboante finale di “Welcome home” e in tempi in cui il vinile rappresentava il principale mezzo per ascoltare musica bisognava spostare il braccio del giradischi, girare la facciata del disco e riposizionarsi all’inizio del lato b stando attenti a non rovinare la puntina.
Con “Disposable heroes“, che parla esplicitamente della guerra e del senso di morte che aleggia nei campi di battaglia, si riparte con ritmi un po’ più sostenuti.
Ma è con “Leper Messiah” che i Metallica risfoderano una prestazione magistrale. Il brano è un mid tempo cadenzato ma molto potente, sorretto da ottimi riff di chitarra e da una linea di basso sempre udibile. Cliff Burton a sei mesi dalla morte, sopraggiunta per un tragico incidente stradale durante il tour scandinavo, si rivela sempre più un elemento di sangue e sostanza per il sound della band di San Francisco. Degno di nota anche il testo, fortemente critico verso ogni religione ed in particolar modo verso quella cristiana.
Arriviamo così al picco assoluto di un album capolavoro: la strumentale “Orion“. Anche in questo caso spetta al distorto basso di Cliff Burton fare da apripista in un tripudio di riff e cambi di tempo come solo il thrash metal d’annata è stato in grado di regalarci. Otto minuti di puro godimento metallico con assoli – eccelso quello di basso posto a metà del brano – che si rincorrono lungo giri di chitarra devastanti.
Il miglior modo per concludere “Master of puppets” non poteva che essere affidato a “Damage Inc.” il pezzo più violento dell’album con Ulrich alla batteria che pesta come se non ci fosse un domani e un assolo di Hammett al fulmicotone. Un vera perla di thrash metal per un disco che rappresenta la Bibbia di ogni metallaro che si rispetti.
I Metallica dopo la pubblicazione di “Master of puppets” assurgeranno tra le band più importanti dell’intero genere metal. Le porte del successo gli si spalancheranno. Due anni più tardi ci regaleranno un altro splendido album di thrash metal, “… and justice for all“, prima della resa ai dettami del mercato e al cambio di stile che gli permetteranno sì di scalare le classifiche di tutto il mondo ma di diventare anche un’antipatica macchina atta a produrre solo profitti.
Giuseppe Maneggio