Cagliari, 14 ott – La disoccupazione endemica, l’invasione programmata di clandestini, la deindustrializzazione dell’isola? Nulla di tutto ciò, la priorità della Sardegna è evitare il linguaggio “discriminante”. E così, la regione ha approvato una legge che, sotto la scusa della “qualità della regolazione e della semplificazione dei procedimenti amministrativi”, adotta a livello istituzionale l’ideologia gender.
A spiegarlo è Annamaria Busia, consigliere del Centro Democratico, autrice dell’emendamento: “Perché – spiega – avvocata è brutto e invece maestra e impiegata no? La verità è che il nome del mestiere declinato al femminile diventa cacofonico nella misura in cui si avanza di livello nella scala professionale”. Ecco allora la proposta: sei mesi di tempo dati alla regione Sardegna per adottare “un linguaggio non discriminante rispettoso dell’identità di genere, mediante l’identificazione sia del soggetto femminile che del soggetto maschile negli atti amministrativi, nella corrispondenza e nella denominazione di incarichi, di funzioni politiche e amministrative”. Espressioni come “sindaca”, “assessora”, “consigliera” e altre non saranno più dunque un vezzo giornalistico per accontentare tutte le Boldrini d’Italia, ma nell’isola diventeranno linguaggio ufficiale.
Tutto risolto, insomma, ad esempio per gli operai dell’Alcoa di Portovesme, che stanno assistendo allo smantellamento degli storici stabilimenti in una provincia dove la disoccupazione sfiora il 20% e quella giovanile supera il 70%. Arriverà un’assessora regionale, sicuramente più capace di un generico (e sessista) assessore, ad occuparsi del problema. D’altronde, spiega la Busia, le parole “definiscono e sono evocative delle cose e delle persone. Non per niente il diritto ad essere riconosciuti per quello che è il proprio nome è un diritto costituzionale”. Qualcuno le ricordi che il suo nome non è consigliera ma Annamaria.
Nicola Mattei