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Ilva: un finto risanamento sulla pelle dei lavoratori tarantini

by Salvatore Recupero
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Taranto, 08 ott – La “nuova” Ilva, che farà capo ad Am Investco Italy (Arcelor Mittal e Marcegaglia), parte con il piede sbagliato. L’azienda ha confermato l’intenzione di assumere per la società, direttamente o attraverso proprie affiliate, diecimila lavoratori a fronte di 14.200 addetti. In pratica verrà dato il ben servito a quattromila lavoratori. Taranto è la città più colpita con più di tremila esuberi, senza contare l’impatto sull’indotto dell’Ilva. Seguono poi Genova e Novi Ligure. Questo era il contenuto della comunicazione con cui i Commissari straordinari hanno formalizzato l’avvio della procedura ex art. 47 legge 428/1990. Queste cifre erano già note a giugno scorso. Ad alimentare lo scontro con le parti sociali c’è anche un altro aspetto: la modalità di ricollocazione del personale. La corporate, si legge nella proposta, “costituirà con i dipendenti selezionati nuovi rapporti di lavoro previa cessazione del rapporto di lavoro con le società e successiva accettazione da parte degli stessi della proposta formulata da Am Investco con contestuale sottoscrizione dei verbali individuali di conciliazione”. Con un colpo di spugna i nuovi acquirenti cancellano la vita professionale di chi ha fatto grande l’Ilva. Infatti, non vi sarà continuità rispetto al rapporto di lavoro intrattenuto dai dipendenti con le società, neanche in relazione al trattamento economico e all’anzianità.

Gli esclusi poi non riceveranno alcuna proposta dall’Am Investco. I lavoratori in esubero come si legge nella nota: “Le società che li hanno in carico manterranno l’integrale ed esclusiva titolarità e responsabilità in relazione ai rapporti di lavoro e le stesse potranno impiegarli nelle attività esecutive e di vigilanza funzionali all’attuazione del piano di tutela ambientale e sanitaria”. Insomma, da oggi in poi ognuno per la sua strada. A gettare acqua sul fuoco ci pensa il ministro per la Coesione territoriale e il Mezzogiorno, Claudio De Vincenti, dichiarando che: “Non ci sarà alcun licenziamento, perché tutti quelli che non saranno assorbiti dalla società del nuovo investitore resteranno dipendenti dell’Ilva in amministrazione straordinaria e saranno impiegati per le attività di bonifica e risanamento ambientale nelle zone attorno il perimetro aziendale”. Ovviamente i lavoratori non si fidano e lunedì è stato proclamato uno sciopero di ventiquattro ore. I motivi della protesta sono sintetizzati al meglio dal consiglio di fabbrica tarantino: “3.311 esuberi, azzeramento degli accordi vigenti, licenziamento e assunzioni con il Jobs Act, azzeramento degli istituti contrattuali, discriminazione tra lavoratori, nessuna prospettiva per i lavoratori degli appalti”. Domani, inoltre, riparte la trattativa al tavolo del ministero dello Sviluppo economico tra azienda e sindacati. Le premesse non ci fanno essere ottimisti.

Il calvario dell’Ilva dopo cinque anni pare non avere mai fine. Cambiano gli attori ma il copione è sempre lo stesso: la collettività paga i fallimenti del mercato. Inquinamento, licenziamenti e sussidi di disoccupazione (a carico della fiscalità generale) sono solo piccoli effetti collaterali dell’efficiente allocazione di risorse attuata dal mercato. Le alternative per ribaltare lo status quo non mancano: si può produrre acciaio con emissioni inferiori del 70-90% in meno rispetto all’Ilva, ma sono necessari ingenti investimenti che nessun privato avrà l’interesse di fare. Per questo c’è bisogno di un intervento mirato del pubblico. Non è un caso se la siderurgia italiana ha dato il meglio di sé solo quando era sotto il controllo dell’Iri.

Salvatore Recupero

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