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Clima, Trump e le ecoballe: cosa ci dicono i numeri?

by Nicola Mattei
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clima trump cop21Roma, 3 giu – Sta facendo molto dibattere, in questi giorni, la sonora bocciatura con la quale Donald Trump ha messo in seria discussione l’accordo raggiunto faticosamente al termine della conferenza Cop21 di Parigi del 2015. Il tema del riscaldamento globale e del governo del clima è da tempo in cima all’agenda politica mondiale, anche se spesso posizioni più ideologiche si scontrano con una realtà fatta di numeri che non sempre sposa le teorie. Con effetti che non hanno mancato di scivolare nello scandalo, come nel caso dell’affare Climategate.

Al netto della diatriba sul riscaldamento e sulle sue cause, antropogeniche o meno, l’oggetto del contendere è in realtà un altro. Vale a dire la possibilità, da parte degli Stati, di agire autonomamente nel campo dell’energia, dell’efficienza e della politica industriale, che ai primi due temi è strettamente connessa. Ora, non è un mistero che Trump strizzi l’occhio a chi sostiene che l’attività dell’uomo non abbia alcun effetto (e se ne ha sono solo residuali) sui mutamenti del clima, e in virtù di ciò adegua le proprie decisioni in qualità di capo di Stato e di governo. E lo fa non sulla base di ragionamenti impulsivi, ma ponderando le scelte sulla base di alcuni dati – questi sì – incontrovertibili.

Se l’obiettivo di The Donald è riportare gli Stati Uniti ad essere una potenza manifatturiera, il tema dell’energia è di fondamentale importanza. Ma soprattutto è centrale il modo in cui questa energia viene utilizzata. Non più tardi del mese scorso, un rapporto dell’American Enterprise Institute ha fatto luce sulla faccenda. L’analisi mette a confronto diversi settori della produzione di energia, da quelli standard (gas e carbone) a quelli delle rinnovabili, solare ed eolico in primis. “Nonostante un’imponente massa fatta di 400mila lavoratori – si legge – quel settore (il solare, ndr) ha prodotto una frazione insignificante, inferiore all’1%, dell’elettricità generata in tutti gli Stati Uniti”. 400mila lavoratori, spiega lo studio, sono più o meno gli stessi che lavorano in gruppi come Exxon Mobil, Chevron, Apple, Johnson & Johnson, Microsoft, Pfizer, Ford Motor Company and Procter & Gamble. Non proprio un’inezia. “Al contrario – prosegue l’analisi – nel comparto del gas naturale lo stesso numero di lavoratori ha prodotto un terzo del fabbisogno energetico Usa, 37 volte tanto rispetto al solare”. Il confronto con il carbone è ancora più impietoso, dato che con soli 160mila addetti il settore è riuscito anch’esso a contribuire al 30% della richiesta nordamericana.

È vero, il programma ‘America First’ di Trump punta a (ri)creare posti di lavoro negli Usa e dunque la critica secondo la quale un improvviso abbandono degli accordi sanciti alla Cop21 rischia di far crollare l’occupazione nel comparto non è peregrina, ma rimane scentrata. Perché compito del settore non è quello di creare lavoro direttamente, ma offrire a tutti accesso alle fonti di energia al costo più basso possibile, affinché le imprese e in special modo quelle manifatturiere possano risparmiare su un costo assolutamente rilevante che spesso limita i loro investimenti e dunque lo sviluppo produttivo. Tradotto nella realtà ciò significa, in termini di efficienza, premiare le fonti meno costose in assoluto, dosando cum grano salis incentivi che fino ad oggi (e non solo negli Usa) hanno creato evidenti distorsioni a danno della collettività e dei conti pubblici.

Nicola Mattei

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Giorgio Precchia 3 Giugno 2017 - 1:52

L’analisi è interessante ma mi sembra incompleta. Infatti per valutare l’impatto economico della produzione di energia, non basta considerare la sola mano d’opera, ma occorrerebbe anche sommare i costi delle materie prime, delle attrezzature e della loro gestione. Forse è bene provarci, fare tutti i conti e poi tirare le somme…

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Flussi 9 Giugno 2017 - 11:46

si ma sono più i lavoratori persi con una conversione massiccia alle rinnovabili, o quelli acquisiti con una maggior disponibilità di energia a minor prezzo da parte delle aziende che poi potrebbero fare, come detto nell’articolo, piani industriali più vasti ed investimenti maggiormente sostanziosi? Qui è la questione. Oppure formulata in termini più pertinenti: nella catena del valore, quale tecnologia ha maggior valore per unità di denaro da iniettare nel processo produttivo?

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Anonimo 9 Giugno 2017 - 11:48

si ma sono più i lavoratori persi con una conversione massiccia alle rinnovabili, o quelli acquisiti con una maggior disponibilità di energia a minor prezzo da parte delle aziende che poi potrebbero fare, come detto nell’articolo, piani industriali più vasti ed investimenti maggiormente sostanziosi? Qui è la questione. Oppure formulata in termini più pertinenti: nella catena del valore, quale tecnologia ha maggior valore per unità di denaro da iniettare nel processo produttivo?

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