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Mercati: un ciclo come tanti oppure arriva il collasso?

by Francesco Meneguzzo
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I tweet di Damian McBride


Londra, 30 ago – Damian McBride è stato – giovanissimo – un brillante consigliere speciale di Gordon Brown, ex cancelliere dello scacchiere (ministro delle finanze), dal 2003, e quindi primo ministro britannico , dal 2007, fino alle sue dimissioni del 2009 per uno scandalo che probabilmente in Italia non sarebbe neppure stato notato. Attualmente è autore di saggi politici e dirigente di una associazione cattolica britannica che combatte la povertà, nonché commentatore tuttora ascoltato negli ambienti politici londinesi.
Hanno stupito alcuni suoi tweet rilanciati dall’Istituto Mises, in cui senza mezzi termini invita a prepararsi per un collasso sistemico dell’economia nel prossimo futuro, interpretando la distruzione di oltre 3mila miliardi di dollari dalla capitalizzazione globale dei mercati finanziari nel corso dei tre giorni di formidabili ribassi della settimana appena trascorsa come un preludio a un crash finanziario molto più ampio e profondo, tale da scatenare perfino rivolte di massa. Secondo McBride, se nel 2008 il sistema finanziario fu prossimo al collasso, questa volta la scala del problema è venti volte maggiore.
Premesso che previsioni di sventura di questo tipo sono sempre state fatte e molto raramente si sono rivelate corrette, mentre eventi quali le grandi guerre e la caduta dell’Unione Sovietica nel ventesimo secolo non erano stati previsti praticamente da nessuno, la sola possibilità di una evoluzione distruttiva di questo tipo induce a considerarne gli eventuali fondamenti con qualche attenzione.
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Andamento dell’indice BDI del commercio via nave delle materie prime “secche” (non petrolifere)


Un primo segnale che qualcosa di profondo non va come dovrebbe è dato dalla contrazione del commercio mondiale, già trattato su queste colonne, abbastanza recente (dalla fine del 2014) per quanto riguarda la totalità delle merci scambiate (tra cui il petrolio è sempre dominante), e di più lungo termine (dal 2011, e più ancora dal 2006) limitatamente alle materie prime non petrolifere: “I primi sei mesi del 2015 sono stati deprimenti”, ha dichiarato in questi giorni Robert Koopman, il capo economista dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
Tra le cause del ridimensionamento del commercio globale, la principale è ritenuta essere la stagnazione nominale, e in termini reali la contrazione, dei salari dei lavoratori nei paesi sviluppati, che a sua volta appare connessa sia strutturalmente alla delocalizzazione verso le aree di bassi salari sia alle fasi di debolezza dell’economia. Tali fasi, d’altra parte, essendo legate essenzialmente ai periodi di prezzi elevati del petrolio, e in ogni caso la relazione tra salari e prezzi del greggio è abbastanza chiara. Basse retribuzioni medie significano incapacità di accedere alle spese discrezionali, almeno per i beni di consumo non immediatamente vitali, col risultato di rallentare gli scambi.
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Relazione tra retribuzioni medie (rosso) e prezzi del petrolio (blu)


Si dirà che oggi i prezzi del petrolio sono bassi. In una prospettiva storica non è vero, dal momento che nell’ultimo decennio del secolo scorso erano, in termini reali, circa la metà di quelli correnti. C’è di più, però: nel frattempo sono aumentati i costi di produzione del greggio, come più volte ricordato su questo giornale, elemento che oltre a determinare la crisi dell’industria petrolifera, i cui margini si assottigliano fino al limite del fallimento, appare anche all’origine della guerra tra i produttori scatenata dall’Arabia Saudita, di cui la produzione statunitense e – ironicamente – lo stesso regno dei Saud stanno risultando come prime vittime.
La stessa diminuzione del potere d’acquisto di vastissimi strati delle popolazioni del mondo sviluppato, limitandone l’accesso al consumo di quote crescenti del petrolio estratto, impediscono ai prezzi dell’oro nero di salire a sufficienza in modo da ripagarne i crescenti costi di produzione.
Indizi, quindi, di una tempesta perfetta sui fondamentali dell’economia mondiale.
Molte delle analisi eseguite nei decenni passati non hanno però tenuto conto di un fattore fondamentale che potrebbe aver letteralmente tenuto in piedi il sistema della globalizzazione capitalista: il debito.
Le iniezioni di liquidità che dopo il 1970 sono andate crescendo attraverso la creazione di moneta sganciata di fondamentali economici, hanno subito una straordinaria accelerazione in seguito alla crisi finanziaria del 2008, prima a opera della Federal Reserve (Fed) a partire dal salvataggio delle banche americane e proseguite con altre due manovre di alleggerimento quantitativo (QE), quindi dalla Banca centrale europea e dalla Banca centrale cinese, nel tentativo di immettere nel mercato capitali che la stagnazione delle retribuzioni stava cancellando, in modo da sostenere allo stesso tempo sia gli acquisti (a credito) e quindi il commercio mondiale, sia i valori degli indici azionari. Almeno nei paesi sviluppati, invece, il risultato principale delle inondazioni di liquidità è stato l’aumento del divario della ricchezza, prima in termini di flussi di capitale – dalle banche al top della piramide sociale, cioè le banche hanno prestato quasi soltanto a chi per stato patrimoniale era in grado di garantire il rimborso – quindi in termini di asset reali (proprietà e azioni) acquisiti anche per mezzo dei capitali freschi a disposizione. Ma, come si dice, un uomo non può sedere su due sedie, e la concentrazione della ricchezza in poche mani non porta a un incremento della domanda globale nemmeno paragonabile a quella ottenibile da una ricchezza diffusa.
Una vicenda in parte separata ed eclatante è quella del governo cinese che, sotto la pressione della diminuzione delle esportazioni, nel tentativo di effettuare una radicale transizione a una economia di consumo interno, si è impegnato a fondo dall’anno scorso per espandere – sempre a credito – le capacità d’investimento nelle borse del paese di vasti strati della popolazione, evidentemente confidando nella disponibilità di tempo sufficiente prima che il gioco venisse alla luce. Si è visto come è andata a finire, sia sul piano delle quotazioni azionarie sia su quello della svalutazione della valuta di Pechino.
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Relazione tra indice azionario di Wall Street e stato patrimoniale della Fed: si nota come l’ultimo “rimbalzo” dell’indice lo riporta semplicemente in linea con la relazione storica tra le due serie. Inoltre, lo stato patrimoniale della Fed ha cessato di crescere in conseguenza della liquidazione dei buoni del tesoro Usa da parte di Cina e Arabia Saudita


Quale naturale conseguenza, al fine di sostenere la divisa – il Renminbi – la banca centrale cinese ha iniziato una vendita massiccia di buoni del tesoro americani, per oltre 100 miliardi di dollari solo nelle ultime due settimane, superando tutte le analoghe vendite dei primi sei mesi dell’anno, cosa che equivale per il mercato Usa a un taglio effettivo del 60% della liquidità acquisita con l’ultima fase della liquidità creata dalla Fed (la “QE3”), in pratica dello stesso stato patrimoniale della banca centrale americana, cosa che potrebbe indurre la stessa istituzione a rimandare ancora il lungamente annunciato aumento dei tassi d’interesse, e che soprattutto appare direttamente connessa alla recente inversione del trend – prima crescente fin dal 2012 – sui titoli azionari d’oltreoceano. Tanto più che il fondo sovrano saudita, sebbene in parte per altre ragioni, è da tempo impegnato a disfarsi dei “Treasuries” made in Usa, di cui è il terzo detentore mondiale (la Cina è il primo).
In altre parole, il petrodollaro, il cui riciclaggio in buoni del tesoro ha costituito per decenni la base della potenza americana, appare in estremo affanno, mentre anche le ultime stime apparentemente positive sull’aumento del Pil di Washington nel secondo trimestre 2015 sono viziate da un incremento senza precedenti degli inventari (stock invenduti), nonché falsate dall’effetto del debito allora ancora in espansione, tanto che le previsioni per il terzo trimestre volgono già, inevitabilmente, al brutto.
Ricordando, se non fosse immediatamente ovvio, che è necessario un tasso di crescita nettamente positivo dell’economia globale al fine di sostenere i consumi, in particolare quelli discrezionali, viceversa impediti da un’economia stagnante (stazionaria) che non consente di ripagare i debiti contratti con qualsiasi tasso d’interesse positivo, anche se minimo, un recente intervento di un’analista molto nota, Gail Tverberg, autrice di articoli giornalistici specializzati e anche di articoli scientifici di forte impatto a livello accademico, aiutano a comprendere il ruolo del debito stesso.
I seguenti passaggi, in particolare: “La ragione per cui un [eventuale] collasso [dell’economia globale] può avvenire rapidamente [attraverso il crollo del sistema finanziario] ha a che fare con il debito e i derivati. La nostra economia strettamente interconnessa richiede debito in modo da estrarre combustibili fossili e anche a sfruttare le fonti di energia rinnovabile, per diverse ragioni: (a) i produttori [di prodotti energetici] non devono risparmiare preventivamente molto denaro, (b) i produttori di manufatti (per esempio auto e frigoriferi) che utilizzano tali prodotti energetici possono ‘finanziare’ le proprie fabbriche a debito, così da non essere costretti a risparmiare molto, (c) i consumatori possono permettersi di acquistare beni costosi (per esempio abitazioni, auto) per mezzo di piani di finanziamento che consentono pagamenti mensili, così che essi stessi non devono necessariamente aver risparmiato in precedenza, e (d) più importante di tutto, il debito fa aumentare i prezzi delle materie prime (commodity) di tutti i tipi (inclusi petrolio ed elettricità), perché consente a sempre più consumatori di permettersi l’acquisto dei beni creati per mezzo di tali materie prime.
Il problema è che, con la contrazione dell’economia, e con la [conseguente] aggiunta di sempre più debito, alla fine il debito collassa [come sta effettivamente avvenendo, per esempio attraverso la liquidazione massiccia dei buoni del tesoro americani]. Questo accade perché l’economia non riesce a crescere abbastanza da generare sufficienti beni e servizi tali da sostenere il sistema complessivo, cioè a pagare adeguate retribuzioni ai lavoratori, generare sufficienti introiti fiscali e utili aziendali, e ripagare il debito con gli interessi, tutto allo stesso tempo.
Viceversa, in corrispondenza di sempre più frequenti e grandi fallimenti del debito, i prezzi delle materie prime diminuiscono e, quando questo accade, è virtualmente impossibile sostenere i prezzi necessari a estrarre le materie prime energetiche che alimentano l’economia globale praticamente in tempo reale, questo rappresentando un importante rischio di collasso sistemico ”.
La complessità e i gradi di interdipendenza dell’economia globale sono talmente grandi che è molto probabile che anche analisi come quelle suggerite manchino di considerare aspetti di fondamentale importanza. Tuttavia, la posta in gioco è talmente elevata, e il ruolo del sistema finanziario e quindi del debito così pervasivo, che vale la pena considerare anche la pur remota possibilità che qualcosa vada davvero storto.
Francesco Meneguzzo

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