Roma, 12 nov – Solo pochi giorni fa il premier Renzi lanciava il sasso, salvo poi nascondere la mano. Prima aveva etichettato l’architettura dell’Unione Europea ed i suoi funzionari, individuando il problema nella «tecnocrazia e la burocrazia» così pervasive al punto che «in alcune riunioni, persino Adenauer e De Gasperi diventerebbero euroscettici ». Successivamente, redarguito da Jean-Claude Juncker, aggiustava il tiro cercando di ridimensionare la propria uscita.
«Io non sono il capo di una banda di burocrati», aveva risposto, perentorio, il nuovo capo della Commissione. Cambio di paradigma all’orizzonte? A giudicare da uno dei primi atti firmati, sembra proprio di no. In un rapporto del 7 novembre (ma pubblicato oggi) “dedicato” agli squilibri macro-economici dell’area euro, con riferimento all’Italia i commissari segnalano infatti sì «sforzi importanti», ma segnalano allo stesso tempo «significative incertezze» date principalmente dalla massa di debito pubblico, giudicato «troppo elevato», «un ostacolo per l’economia e una seria fonte di debolezza, in particolare nell’attuale contesto di bassa crescita e di bassa inflazione». Da manuale di macroeconomia, nulla che un qualsiasi normale impiegato possa agilmente rilevare ad un’analisi poco più che sommaria.
Non che dal lato della proposta, invece, vi sia un qualche passo in avanti. I suggerimento/richieste rimangono nel solco tracciato da anni a questa parte. A partire dagli ormai consumati tagli alla spesa e dalle onnipresenti privatizzazioni. Le stesse strategie adottate dalla caduta della prima repubblica in poi e che hanno prodotto come risultato la situazione in cui ci veniamo a trovare oggi: senza politica industriale, con quella fiscale delegate al livello europeo, privati -per scelta nostra, nella convinzione che a Bruxelles le scelte potessero essere migliori di quelle che avevano comunque portato l’Italia ad essere la quarta potenza industriale del mondo– delle più elementari sovranità.
Filippo Burla