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Debito pubblico: lo zampino di Draghi dietro la bolla dei derivati?

by Salvatore Recupero
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images2X7QRJEWRoma, 4 mag – La politica ai tempi di Twitter, ieri ci ha regalato un’altra perla. Una dotta discussione tra economisti è stata interrotta da una clamorosa gaffe di un deputato del Partito Democratico. Andiamo ai fatti. Due giorni fa il noto economista Luigi Zingales scriveva: “Secondo le stime dello stesso Tesoro italiano, negli anni a venire i contribuenti italiani dovranno probabilmente pagare qualcosa come quarantadue miliardi di euro per coprire perdite causate dai derivati, però non possono conoscere l’origine di queste perdite, né influenzarne la gestione futura”. Mentre Zingales cinguetta con i suoi followers sull’opportunità di fare chiarezza sulle cause di queste perdite: “Io ho chiesto trasparenza su contratti (derivati) già chiusi. Perché il Tesoro ha paura di rivelare questi?” irrompe il commento di Giampaolo Galli, deputato del Pd: “Quelli chiusi sono per lo più della gestione Draghi? Ci penserei un attimo di questi tempi”.

Quindi, per Galli i panni sporchi vanno lavati in casa. In questo caso, il rischio è quello di indebolire il Nostro Mario Draghi.  Certo il tweet del deputato democratico è un vero e proprio autogol. Ma, forse involontariamente ha detto qualcosa di sensato. Vediamo perché. Intanto, è bene ricordare il contesto in cui furono rinegoziati quei titoli tossici. In questo, ci aiuta la Procura di Trani che, ha aperto un’indagine sui fatti che portarono alla cosiddetta crisi dello spread. Da questa inchiesta è nato un processo che vede come imputati otto manager delle agenzie di rating che poco prima avevano declassato l’Italia. Riavvolgiamo il nastro. A gennaio 2012 quando lo spread era a 500 punti, il Tesoro ristruttura, perdendoci, cinque contratti derivati sottoscritti con la banca in un accordo quadro del 1994. Dagli atti della Procura di Trani, emerge che la banca d’affari è azionista di Standard & Poor’s. Insomma, per dirla in parole povere prima l’agenzia di rating declassa i titoli per farli comprare a prezzo di saldo al suo azionista. La vicenda è abbastanza chiara.  Ma, perché, dunque, chiamare in causa Draghi, allora neo Governatore della Bce?

Il motivo è semplice, ma bisogna fare un passo indietro. Nel 1994 (quando furono sottoscritti questi contratti derivati) al governo c’era Carlo Azeglio Ciampi, con il Tesoro che cercava di rispettare i parametri di Maastricht per entrare nell’Eurozona. Ministro era Piero Barucci e direttore generale Mario Draghi. A dirigere il dipartimento del debito pubblico c’era Vincenzo La Via, attuale direttore generale del dicastero. Come si vede sono gli stessi nomi che girano ancora oggi. Anzi, hanno fatto strada. Draghi, dunque, fu uno dei protagonisti di quell’epoca. Lui e i suoi sodali ebbero l’idea di usare gli swap, derivati utilizzati per proteggersi dal rialzo dei tassi di interesse sui titoli di Stato, come quello sperimentato nel 2011. Il funzionamento è semplice quanto perverso. Se questi salgono, il Tesoro risparmia, viceversa ci perde, come sta avvenendo ora.  Una scommessa: carta vince, carta perde.

Draghi, dunque, dopo aver contribuito, in veste di direttore generale del Tesoro a far sottoscrivere quei contratti capestro; come capo della Bce abbassando i tassi d’interesse ha di fatto aperto una voragine nel nostro bilancio. Come si può notare Giampaolo Galli non aveva tutti i torti. E arriviamo, così, alle impietose cifre di oggi. Dati che purtroppo si trovano nel Def. Non sono dunque frutto di elaborazioni giornalistiche. Si parla di una perdita per le casse dello stato solo fra il 2011 e il 2015 di ventitré miliardi e altri cinque sono prevedibili per il 2016. Altro che spending review. Risultati confermati in questi giorni anche da un’analisi di Bloomberg. Come hanno scritto Lorenzo Totaro e Giovanni Salzano per Bloomberg News: “I dati Eurostat dimostrano che negli ultimi tre anni i derivati hanno appesantito ulteriormente il debito pubblico italiano, rendendo l’Italia, il Paese che ha subito le maggiori perdite da swap nella zona euro”.

Ovviamente, sarebbe banale addossare la colpa ad una sola persona seppur influente. Bisogna, però, denunciare i troppi conflitti d’interesse nella gestione della Cosa pubblica. Indipendentemente dalle sentenze della magistratura i maggiori protagonisti della seconda repubblica hanno collaborato proficuamente con grandi le banche d’affari. Vediamo qualche nome. Mario Draghi per esempio, nel 2002 è stato nominato Vice Chairman e Managing Director di Goldman Sachs International per guidare le strategie europee dell’istituto dalla sede di Londra e, dal 2004 al 2005, membro del Comitato esecutivo del gruppo Goldman Sachs. La stessa banca d’affari, guarda caso, che ebbe come consulenti Romano Prodi e Mario Monti. Il braccio destro di Berlusconi, Gianni Letta, terminata la missione a Palazzo Chigi ottenne una consulenza dalla banca americana. Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro e poi ministro, è stato ingaggiato da JP Morgan. Dal 2006, inoltre, Domenico Siniscalco lavora per Morgan Stanley ottenendo l’incarico pochi mesi dopo aver lasciato il posto di ministro dell’Economia. Nemo propheta in patria, diceva qualcuno. In Italia, questi signori hanno fatto tanti danni ma all’estero sono ricercatissimi. Chissà perché?

Si spera che questa classe politica abbia almeno capito la lezione: lo stato non può e non deve usare strumenti finanziari ad alto rischio. Ristrutturare il debito pubblico usando i derivati è come pagare il mutuo di casa propria giocando alla roulette. Nella vita di tutti i giorni un padre di famiglia viene interdetto per molto meno.

Salvatore Recupero

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Cesare 4 Maggio 2016 - 12:06

Estratto da;
La verita’ sui miliardi regalati da Monti alla Morgan Stanley
24 Marzo 2012
da:informare.over-blog.it
….”Una gestione più trasparente di queste “armi di distruzione di massa” non farebbe male, anche per evitare il sospetto di giganteschi conflitti d’interesse: proprio dalla Morgan Stanley è transitato prima del 2009 Giovanni Monti, figlio dell’attuale premier. Laureato alla Bocconi di Milano, scrive la “Gazzetta di Parma”, prima dell’approdo alla Parmalat (rilevata dalla francese Lactalis) il giovane Monti ha lavorato prima a Citigroup e poi a Morgan & Stanley: «A Citigroup è stato responsabile di acquisizioni e disinvestimenti per alcune divisioni del gruppo, mentre alla Morgan si è occupato in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York». Coincidenze? Invitabili i sospetti, aggiunge “IcebergFinanza”, di fronte a «evidenti conflitti di interesse» che «non possono essere cancellati solo con dimissioni temporanee da cariche che vengono da molto lontano», specie se chi comanda ha avuto rapporti di lavoro «con i principali responsabili di questa depressione umana, ovvero le banche d’affari», per lo più americane. “

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