Washington, 30 apr – Il Pil degli Stati Uniti registrato nel primo trimestre dell’anno è stato alquanto deludente. Le attese degli economisti e del governo Obama erano per una crescita attorno all’1% ed invece in prima lettura il GDP (Gross Domestic Product) ossia il Prodotto interno lordo ha avuto una crescita asfittica dello 0,2%.
Nel terzo e nel quarto trimestre del 2014 il Pil degli Usa era cresciuto rispettivamente del 5 e del 2,2%. L’economia americana ha rallentato il passo in scia al calo degli investimenti aziendali, alla flessione delle esportazioni e alla maggiore cautela da parte dei consumatori.
Le cause sono sicuramente quasi tutte da imputare al rafforzamento del dollaro nei confronti dell’euro (+9% dall’inizio dell’anno), ma naturalmente non è la sola ragione valida per spiegare una simile debacle. Appare viceversa evidente che questa è l’esatta fotografia dell’economia Usa che negli anni passati aveva veleggiato su numeri assai più elevati grazie all’immenso flusso di liquidità pompata nei mercati attraverso il quantitative easing. Un’economia dopata e pompata quella degli anni scorsi e che dovrebbe far riflettere anche noi europei e la Bce. Un ritorno al quantitative easing sarebbe il più grave errore che la Fed potrebbe fare, e comunque oggi abbiamo avuto anche la conferma che, nella migliore delle ipotesi, non servirebbe a nulla, se non a prolungare l’agonia.
Il petrolio è un’altra delle possibili cause legate alla crescita deludente degli Stati Uniti. Nonostante un calo precipitoso nei prezzi della benzina in tutta l’America alla fine del 2014, la spesa dei consumatori non è aumentata quanto gli economisti avevano previsto, segnando la prima volta dal 2012 che le vendite al dettaglio sono cadute per tre mesi consecutivi nel mese di dicembre, gennaio e febbraio.
Il problema degli Usa, così come di altri paesi europei ha un solo nome: debito. L’economia del debito, vale a dire il principio per il quale i ricavi debbano scaturire dai debiti. E non ci riferiamo soltanto alla pratica delle cartolarizzazioni che include anche i prodotti derivati.
Inoltre gli Stati Uniti ci portano a pensare che un allentamento monetario (quantitative easing) senza una forte riduzione fiscale non porta a stimolare la domanda aggregata. Cosa che viceversa accadrebbe con una simultanea espansione monetaria e fiscale sia in modo diretto che indiretto, attraverso un tasso di cambio svalutato. E la conseguente inflazione temporaneamente più elevata sarebbe la benvenuta, in quanto ridurrebbe il problema dell’eccesso di debito e faciliterebbe il raggiungimento dell’obiettivo di stabilità dei prezzi.
Giuseppe Maneggio