Roma, 17 gen – All’interno del piano di dismissioni varato dal governo e orientato a racimolare risorse con le quali ridurre la massa dell’indebitamento, ha riscosso particolare attenzione la vicenda Eni. L’azienda degli idrocarburi, prima per capitalizzazione a piazza Affari, si vede infatti coinvolta in una mossa societaria che non sembra reggere i tempi richiesti e vanificare così le velleità governative.
Il piano annunciato a novembre dello scorso anno da Enrico Letta prevede, tra le altre partecipate, la cessione di circa il 4% del gruppo di San Donato Milanese in carico al ministero dell’Economia. Obiettivo raccogliere sul mercato -ai valori correnti di borsa- poco più di due miliardi. Questo a fronte della rinuncia ad almeno un centinaio di milioni l’anno in termini di dividendi, specie se si considera inoltre che i due miliardi rappresentano meno dello 0.1% della massa di debito pubblico che si vorrebbe aggredire.
La cessione delle quote solleva tuttavia problematiche estremamente delicate. Tra esse, principalmente il rischio della discesa del controllo (diretto e indiretto) da parte dello Stato al di sotto di 1/3 del capitale. Rimanere oltre la soglia proteggerebbe infatti la società da scalate ostili, perché in assemblea mancherebbe il quorum richiesto per le operazioni straordinarie. Di fronte alla ferma volontà di procedere alla cessione per fare cassa, l’unica opzione praticabile è lo scaricare il peso sull’azienda attraverso un riacquisto, totalmente in carico al cane a sei zampe, di quote azionarie per evitare di renderle disponibili sul mercato. Il cosiddetto “buy back” -operazione consentita dalla disciplina, che prevede le società possano detenere azioni proprie- ha ad oggetto il 10% circa del capitale sociale al fine di permettere al ministero di cedere la propria quota senza scendere indirettamente sotto al 30%, stante che va considerato anche il 26.37% detenuto tramite Cassa depositi e prestiti. Il tutto da completarsi entro l’anno.
In ossequio alle disposizioni del proprio azionista di maggioranza, la società ha dato così all’inizio di gennaio avvio al programma di riacquisto. I primi risultati sembrano non poter in alcun modo sostenere la strategia studiata. Eni è riuscita ad acquistare in una settimana solo lo 0.33% del capitale, in netto ritardo rispetto a quanto previsto nella tabella di marcia. Non è d’altronde plausibile che l’operazione possa velocizzarsi senza svenare le casse societarie in acquisti a condizioni fuori mercato. L’ultimo piano di riacquisto concluso pochi esercizi addietro, infatti, ha richiesto ben 8 anni. Circa quanto sarebbe necessario attendere se i ritmi attuali fossero confermati. Con buona pace del “giochino” architettato in quel di via XX Settembre, dove non sembra siano nemmeno più in grado di privatizzare con quella sospetta celerità che aveva fatto guadagnare all’Italia un poco invidiabile privato all’inizio degli anni novanta.
Filippo Burla
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[…] forte la richiesta di accelerare con il piano di privatizzazioni già avviato dal governo ma che, a fronte anche di difficoltà tecniche, non riesce a procedere speditamente quanto si vorrebbe. Difficile così raggiungere […]
[…] in merito ai referendum sull’acqua. Ecco che, di fronte alle rimostranze -per non dire degli ostacoli tecnici che paiono a tratti pretestuosi, forse a nascondere una malcelata sofferenza per la cessione delle […]
[…] in merito ai referendum sull’acqua. Ecco che, di fronte alle rimostranze -per non dire degli ostacoli tecnici che paiono a tratti pretestuosi, forse a nascondere una malcelata sofferenza per la cessione delle […]
[…] rischio concreto, in definitiva, è che si ripeta la magra figura di manifesta incompetenza collezionata dal ministro Saccomanni. Le privatizzazioni restano un pessimo […]