Roma, 6 apr – Nel corso del 2016, ben 115.000 italiani si sono trasferiti all’estero. È la popolazione di una città come Vicenza. Sorprende, peraltro, che la crescita superiore di emigrati la si è avuta nella fascia tra i 40 e i 50 anni: tra il 2008 e il 2014 sono raddoppiati, da 7.700 a 14.300. Del resto qualche giorno fa uno studio della fondazione Bruno Visentini ha spiegato che, se nel 2014 i giovani di vent’anni raggiungevano l’indipendenza economica dopo 10 anni, nel 2020 per realizzarsi impiegheranno 18 anni e nel 2030 addirittura ventotto.
In sostanza, nel 2020 bisognerà aspettare 40 anni per diventare autonomi, nel 2030 addirittura i cinquanta. In un quadro del genere, non c’è da stupirsi se poi si emigra. Tra 2008 e 2014 il numero degli “expat” che hanno tra i 15 e i 29 anni è aumentato del 64%. Aumentati del 50,2% gli emigrati di 30-39 anni. Addirittura +84,6% per gli espatriati di 40-49 anni e +56,6% per la fascia 50-63 anni. Ecco, quindi, il frutto delle politiche liberiste e del precariato. Ma anche di una certa campagna “culturale” che fa dell’espatriato un eroe, una figura cool, moderna, cosmopolita, affascinante. Si aggiunga un ulteriore dato: fra chi lascia l’Italia, il 31% è laureato, il doppio della media nazionale.
E se le destinazioni classiche dell’emigrazione tirano sempre (dalla Germania agli Usa), cresce la quota di chi si trasferisce in località non occidentali, ma a forte espansione economica: dalla Cina ai vari e supermoderni emirati del Golfo. C’è poi un’altra variabile di cui tener conto: in Italia la percentuale di laureati tra gli immigrati è del 10%. Nel Regno Unito sono il 47%, in Svezia il 39% in Svezia. Insomma, lasciamo andare cervelli e importiamo braccia. L’impoverimento culturale è evidente. Per non parlare dell’aspetto quantitativo, oltre che qualitativo: sempre più italiani se ne vanno, sempre più stranieri arrivano. Ecco che la sostituzione di popolo, da teoria giudicata “complottista”, diventa tragica realtà.
Giuliano Lebelli