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Grandi aziende? Vedi alla voce “estero”

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LOGO_PARMALAT_rRoma, 27 nov – In principio furono le privatizzazioni di inizio anni novanta. Successivamente venne Gucci, poi Parmalat e Telecom. Sono questi solo alcuni, invero i più famosi, casi di grandi aziende e marchi storici dell’industria italiana ad aver passato il testimone a gruppi esteri. Al di là della rinomanza, non sono tuttavia gli unici ad aver attualmente un socio di riferimento oltre i confini nazionali. Una tendenza che va, negli ultimi anni, a rafforzarsi.

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Dati Centro studi Unimpresa

Secondo un recente studio condotto da Unimpresa infatti, di fronte ad un aumento di valore delle imprese nostrane, sono queste un patrimonio sempre più forestiero. Se il complesso globale delle aziende segnala un “solo” 20% in mano a stranieri, la percentuale sostanzialmente raddoppia fino a toccare il 40% nelle società quotate. Quasi la metà della capitalizzazione di borsa, insomma, non ha bandiera italiana.

«La ricerca – commenta il presidente di Unimpresa, Paolo Longobardi – consente due riflessioni: anzitutto che la crisi italiana è nelle piccole e medie imprese e che proprio su questa categoria vanno concentrati gli sforzi da parte di Governo e Parlamento. Quanto alle quote di possesso, la crescita degli stranieri mostra un forte interesse per il made in Italy, che ha sempre una grande forza attrattiva, ma allo stesso tempo deve essere fonte di preoccupazione enorme per il sistema Passe: si lanciano segnali d’allarme rosso quando i player internazionali vogliono acquistare grandi nomi, quelli conosciuti. Mentre sotto traccia, e nel silenzio più assordante, stiamo perdendo tutto».

La posizione di Longobardi non deve però essere confusa con la troppo generica “difesa dell’italianità” che –si veda nel caso Alitalia– rischia di produrre più danni che benefici. Senza un impianto concreto di politica industriale alle spalle il respiro sarà sempre corto e incapace di frenare il drenaggio di risorse oltre confine. Quel che rileva è proprio un deficit in termini di scelte (e di difesa) nell’incapacità di delineare un nuovo paradigma. Un paradigma che non abbia il timore di utilizzare anche leve poco confacenti ad un clima di austerità come quella dell’intervento pubblico. Senza la disponibilità di capitali privati disposti ad investire, infatti, liberalizzazioni e privatizzazioni non troveranno mai un terreno fertile. E le grandi imprese ancora in mano allo Stato dimostrano quanto sia il loro valore nel promuovere crescita, sviluppo economico e politica industriale di lungo periodo.

Filippo Burla

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