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La vera guerra commerciale? E’ quella della Francia contro l’Italia

by Filippo Burla
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fincantieri chantiers atlantiqueRoma, 2 apr – La reciprocità, questa sconosciuta. Mentre Gentiloni si spertica in lodi infinite sul libero mercato come “più grande motore di prosperità della storia”, interviene la dura realtà a non far combaciare la teoria con la pratica. E a fare gli onori per smontare i desiderata del premier non è il cattivo Trump ma qualcuno di meno lontano, praticamente un vicino di casa che in teoria dovrebbe essere soggetto a quei trattati comunitari che del libero mercato sono la sublimazione in salsa europea. Stiamo parlando della Francia, che se da un lato è impegnata da anni in una campagna acquisti al di qua delle Alpi, dall’altro mostra i muscoli nel momento in cui ad essere toccato è un suo interesse industriale.

La vicenda è nota: Fincantieri, fra le principali società di costruzioni navali al mondo, ha messo sul piatto 200 milioni di euro per rilevare gli Chantiers de l’Atlantique di Saint-Nazaire, uno dei più grandi cantieri navali sull’Atlantico. Una scelta, quella del gruppo triestino, coerente con un piano di sviluppo a lungo termine, tanto più che il sito produttivo francese è di proprietà della coreana Stx, fra i maggiori concorrenti proprio di Fincantieri ma attraversata da tempo da una severa crisi industriale. Per una volta l’Italia da preda diventa predatore: qualora l’affare andasse a buon fine sarebbe il secondo ‘pezzo’ di Stx a finire sotto il controllo dell’ad Giuseppe Bono dopo l’acquisto, nel 2013, di Stx Osv (specializzata nella realizzazione di imbarcazioni offshore, 9mila dipendenti e cantieri sparsi ovunque mondo), poi ribattezzata Vard.

Il condizionale è d’obbligo, perché a dispetto dei rapporti di buon vicinato, dei Trattati fondativi dell’Ue e degli elogi reciproci delle magnifiche sorti e progressive del mercato, la Francia è disponibile a tutto tranne che a vedere Fincantieri mettere le mani sui suoi Chantiers. Siamo in piena campagna elettorale e il Partito Socialista di Hollande, stretto fra la Le Pen e l’exploit di Macron, alle elezioni rischia seriamente di fare da convitato di pietra e tenta allora il tutto per tutto. Ivi compresa una parola da tempo uscita dal lessico di una parte politica che, per sua stessa ammissione, non guarda più alle esigenze dei lavoratori: “Nazionalizzazione”. Di questo si parla in merito a Saint-Nazaire, che nonostante sia già di proprietà straniera diventa curiosamente e all’improvviso di rilevanza strategica.

Di “atteggiamento vergognoso e inaccettabile” parla l’ad di Cassa Depositi e Prestiti (capogruppo che controlla la maggioranza di Fincantieri), Claudio Costamagna, che si augura “sia solo una manovra pre-elettorale francese e che quindi dopo le elezioni possa essere risolta. Non è assolutamente accettabile che un paese come la Francia prenda posizione come questa, soprattutto alla luce di tutto quello che i francesi hanno fatto in Italia”. Il riferimento è alle numerose acquisizioni fatte negli ultimi anni, con Parigi che ha spadroneggiato senza colpo ferire mentre il governo italiano si piegava alle direttive comunitarie che spuntano le armi a qualsiasi possibilità di difesa. Dalla moda al lusso, da Gucci a Pomellato, dalle banche all’alimentare con Bnl e Parmalat, fino a Telecom e Mediobanca, senza dimenticare Mediaset.

Vogliamo davvero allora continuare a parlare di Trump e dei suoi dazi doganali? Se il presidente americano intendesse proseguire sulla strada dei dazi doganali forse la Piaggio venderà qualche Vespa in meno negli Stati Uniti e la Nestlé rinuncerà a qualche migliaio di euro di fatturato per non deliziare più i palati (a dire il vero non molto sopraffini) degli americani con l’acqua San Pellegrino, ma davvero possiamo considerare questi come i termini di paragone di un commercio internazionale che non regge più la globalizzazione spinta ai suoi estremi? Per inciso: qualora l’amministrazione Usa facesse davvero sul serio, a livello globale la quota massima di dazi applicabili non potrebbe superare i 100 milioni di dollari. E cioè meno della metà dell’investimento di Fincantieri.

Filippo Burla

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