Roma, 1 mar – L’Istat rivede al rialzo i numeri sul Pil per l’anno 2015, dal precedente +0.7% al +0.8% dell’ultima – e definitiva – stima. Si tratta della prima “crescita dopo tre anni consecutivi di flessioni”, spiegano dall’istituto. Numeri positivi anche per la pubblica amministrazione, che registra un rapporto deficit/Pil al 2.6% rispetto al 3% dello scorso anno.
“Con questo governo le tasse vanno giù, gli occupati vanno su, le chiacchiere dei gufi invece stanno a zero”, commenta via facebook Matteo Renzi. Secondo il premier “i numeri non sono importanti”, ma il confronto è presto datto: “A inizio del 2015 – continua il presidente del consiglio – avevamo immaginato la crescita del +0,7%. La crescita è stata invece del +0,8%. Meglio delle previsioni. Il Governo Monti aveva chiuso con -2,3%; il Governo Letta con -1,9%”, spiega con un grande profluvio di cifre. Delle due l’una: o non sono importanti o non lo sono. Dimenticandosi peraltro un piccolo particolare: nella nota di aggiornamento di settembre la crescita era data al +0.9%, ma a consuntivo siamo a -0.1% rispetto alle previsioni. Nulla di nuovo dato che le stime di inizio e metà anno sono da sempre smentite, però se l’entusiasmo vale in positivo allora analogo atteggiamento – invertito – dovrebbe essere anche nel caso opposto.
D’altronde, parlare di crescita è corretto? Fino a quando le cifre resteranno al di sotto del punto percentuale, no. La politica che abbiamo ribattezzato più volte dello “zerovirgola” può, al massimo, valere la definizione di (micro)ripresa. Ma per tornare veramente a parlare di stato sociale e suoi problemi di finanziamento, di politiche per il lavoro, di taglio delle tasse, di sostenibilità del sistema pensionistico, serve che le percentuali siano decisamente più robuste. Diventano infatti apprezzabili – in termini di Pil, riduzione del cuneo fiscale, del rapporto deficit, ecc. – solo nel momento in cui superano come minimo la soglia dell’1, meglio ancora se 2%. Al di sotto, al più si vivacchia nella decrescita in atto. Come ad esempio nel caso della disoccupazione, la cui riduzione secondo il ministro Poletti rappresenta “un grande risultato”. Sì, la disoccupazione è diminuita: ma di percentuali da prefisso mentre, nel frattempo, aumentavano gli inattivi (essendo il tasso di disoccupazione un rapporto fra disoccupati e totale disoccupati più occupati, esso non considera il loro impatto: chi esce dalla disoccupazione, in sostanza, non rientra automaticamente nel numero degli occupati) e a breve andranno ad esaurirsi gli effetti degli sgravi alle assunzioni.
Filippo Burla