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Dalla Legge 300 al Jobs Act: quando liberalizzazione significa precarietà del lavoro

by La Redazione
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Roma, 4 lug – Il mito della stabilità del posto di lavoro, così diffuso e garantito negli anni ’60 in conseguenza del grande sviluppo economico, inizia ad essere messo in discussione con il varo della prima norma che disciplina il contratto a tempo determinato, la legge 18 Aprile 1962 n. 230. La sua emanazione si inserisce in un contesto normativo ancora carente di tutele e limiti al potere di recesso del datore di lavoro.

Solo con la legge 15.7.1966 n. 604 vennero introdotti dei limiti al potere di recesso da parte del datore di lavoro, mentre prima era nel pieno diritto di quest’ultimo di poter recedere “ad nutum” cioè senza necessità di alcuna motivazione o causa. Tuttavia occorre rilevare che non esistendo, prima dell’introduzione della l. 230/62, alcuna norma che prevedesse il divieto di discriminazione, il contratto a termine in realtà godeva di diritti economici notevolmente inferiori rispetto al contratto a tempo indeterminato, basti pensare che non erano previste le ferie, gli scatti di anzianità, l’indennità di anzianità e altre variabili comunque da non sottovalutare.

Per i primi anni di vigenza della legge istitutiva del contratto a termine, vi è stato un contenzioso particolarmente contenuto e quasi mai rivolto ad ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato. Contenzioso che si è particolarmente accentuato una volta che il legislatore ha deciso di istituire un complesso regime limitativo dei licenziamenti dapprima con la ricordata legge n. 604/66 e successivamente con l’art. 18 legge 20.5.1970 n. 300.

Solo con l’introduzione di quanto previsto dall’art. 23 della legge del 28 febbraio 1987, n. 56 si è avuto un momento di attenuazione del contenzioso poiché fu previsto, in aggiunta alle tassative ipotesi contenute nella l. 230/62, anche altre ipotesi individuate dai contratti collettivi di lavoro e furono introdotte limitazioni quantitative e un diritto di precedenza.

Lavoro sempre più liberalizzato

Con il d.lgs del 6 settembre 2001 n. 368 (attuativo della direttiva della Comunità Economica Europea n.76/99 che ha recepito l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato), si ha una ulteriore spinta evolutiva verso una maggiore liberalizzazione del contratto a termine, con l’abrogazione della l. 230 r l’introduzione, al suo posto, della famosa norma “generale” (c.d. “causalone”), ovvero la possibilità di poter stipulare un contratto a tempo determinato solamente laddove esistessero “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”. Neanche tale intervento normativo ha ridotto il contenzioso, che anzi ha trovato maggiori appigli proprio nella genericità ed astrattezza delle ragioni.

Si assiste in questi anni ad un rilevante ed indiscriminato uso del lavoro a termine, che contribuisce alla diffusione della condizione di precariato. Così con la l. 247/2007 viene modificato nuovamente il d.lgs. 368/2001 e viene reintrodotto il principio per cui il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato, riportando l’attenzione su tale tipologia di contratto atto a generare stabilità nel rapporto di lavoro.

Oramai la strada verso una decisa liberalizzazione del contratto a termine era tuttavia pressoché tracciata e si può affermare che, anche nell’ordinamento italiano, si stia andando verso una sempre maggiore liberalizzazione dei rapporti di lavoro a tempo determinato. Inutile soffermarsi sugli interventi normativi della Legge Fornero (normativa 92/2012) e del Jobs Act, emanato durante il governo Renzi (Dlgs 81/2015). In particolare, mediante quest’ultimo intervento normativo vi sono state chiare problematiche sul piano lavorativo e previdenziale.

Giulio Romano Carlo

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