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Otto punti per il dibattito su Eurolandia, Unione Europea ed Europa

by Davide Di Stefano
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Der Euro kommt: Ab 1. Januar 2002 offizielles ZahlungsmittelRoma, 6 dic – Continua a montare il dibattito su Eurolandia, Unione Europea ed Europa, attraverso l’intero spettro politico italiano così come attraverso tutto il continente.

Un’interessante presa di posizione di Gianfranco La Grassa su Conflitti e strategie ci ricorda d’altronde come posizioni che si vorrebbero sovraniste o populiste ma che parlano di euro ignorando ad esempio il problema della Nato rischiano di accanirsi contro un capro espiatorio trascurando il nocciolo della questione.

La maggiorparte dei contributi critici restano però alla superficie dei problemi economici immediati che la crisi crea all’Europa meridionale, spesso limitandosi ad opporre un campanilismo piccolo-nazionalista a ciò che viene percepito come una mera conseguenza delle posizioni dell’attuale  governo tedesco o addirittura di un supposto processo di unificazione che sarebbe per definizione contrario agli interessi difesi.

Giova al riguardo richiamare alcuni punti che possono contribuire ad una visione più consapevole della situazione.

 

1) La differente produttività, competitività e dinamismo economico di varie zone non è determinata dal tipo di moneta in esse utilizzata. Esiste vasta esperienza di zone con produttività molto diversa che condividono la stessa moneta, dentro o fuori la medesima entità statale; e ovviamente di zone la cui produttività resta diversa benché non la condividano affatto.

2) Vedere l’esistenza di una moneta comune come un cambio fisso tra monete estinte è una forzatura monetarista, che al medesimo titolo potrebbe essere estesa alle aree valutarie delle monete nazionali pre-euro rispetto alle monete storicamente loro preesistenti. E’ corretto dire d’altronde che i meccanismi che in un sistema capitalista coinvolgono il funzionamento di una moneta su una certa scala si ripropongono puntualmente anche quando questa scala venga ampliata, peggio ancora se in modo incoerente rispetto al ritardo di altre forme di integrazione centralista (che invece nei singoli paesi sono già state percorse sino in fondo).

3) La differente produttività di varie zone in un sistema capitalista è ovviamente e rapidamente esacerbata dalla creazione, prima ancora che di una moneta comune che impedisca svalutazioni competitive, anche di un semplice mercato comune che preveda le quattro famose libertà di circolazione (dei capitali, delle persone, delle merci e dei servizi). Ora, un siffatto mercato è oggi in vigore non solo in Eurolandia, non solo nell’intera Unione Europea, ma nell’intero Spazio Economico Europeo, e innanzitutto all’interno dei singoli stati-fantoccio che hanno stipulato i relativi trattati. Eloquenti sono in questo senso le conseguenze delle relative scelte turboliberiste che hanno portato alla distruzione dell’economia meridionale nel Regno d’Italia nell’ottocento, o di quella ex DDR dopo la Wiedervereinigung tedesca nel novecento.

4) La “soluzione” capitalista al problema è nota quanto deleteria. Essa consiste nel fatto che, mentre si arricchiscono le aziende basate nelle zone favorite, innanzitutto tali zone vengono tosate fiscalmente per poi ridistribuire a pioggia parte della ricchezza ivi creata nelle zone sfavorite in modo da creare una economia clientelare, assistenziale e mafiosa che assicuri l’appoggio della relativa popolazione al potere centrale; e secondariamente nel fatto che la stessa popolazione delle zone condannate al sottosviluppo viene messa a disposizione come serbatorio di manodopera a basso costo liberamente importabile da parte delle aziende basate nelle zone favorite (da sud a nord, dalle periferie al centro, etc.); il tutto così da creare quella che viene definita un'”Area Valutaria Ottimale”.

5) Tale scenario resta inaccettabile su scala continentale per le stesse ragioni, e né più né meno, di quanto sia già inaccettabile sulla scala delle zone amministrate dai singoli stati-fantoccio che hanno costituito ed animano l’Unione Europea. Ciò a partire dalle esternalità che le aziende delle aree “ricche” scaricano comunque sulla società nel suo insieme, ivi compreso nelle aree medesime, per esempio a titolo di distruzione del tessuto sociale sia delle aree di partenza che delle aree di arrivo degli immigrati; e comunque per la giustificata insofferenza di zone, come la Baviera o la Lombardia o la Catalogna (prima ancora che come la Germania o la Finlandia in quanto tali nell’ambito dell’Unione), che vedono una costante emorragia e ridistribuzione di risorse create localmente a favore altrui. Di converso, se questa “soluzione” viene accettata sul piano locale, non si vede più perché un’Unione Europea rafforzata, magari tramite un’unificazione fiscale e di bilancio, etc., non dovrebbe o potrebbe fare lo stesso.

6) Qualora si potesse anche dimostrare che tale meccanismo sarebbe perfettamente accettabile localmente, ma per qualche motivo non invece a livello europeo, il problema che rimane per le zone sfavorite intenzionate a mantenere un sistema essenzialmente capitalista ma al tempo stesso a “proteggere” la propria economia consiste non tanto e non solo dall’euro, ma deriva  dall’integrazione economica conseguita all’instaurazione del Mercato Comune a partire  dal 1958, e potrebbe essere affrontato radicalmente solo con un’uscita dei paesi interessati non solo da Eurolandia, ma anche dall’Unione Europea, dallo Spazio Economico Europeo e probabilmente dal GATT. Questo non significa di per sé che ciò non si possa o non si debba fare; significa semplicemente che bisogna avere presente quali sono le radici e le cause effettive dei problemi denunciati, e quali invece sono solo epifenomeni di facciata, effetti collaterali o al massimo ciliegine sulla torta. Inoltre, la cosa impone di tenere conto che la capacità di adottare concretamente queste scelte resta commisurata al livello di sovranità del soggetto presente o futuro coinvolto, a sua volta misurabile sul grado della sua indipendenza energetica, tecnologica, strategica ed alimentare – e ovviamente politica. Sotto questo profilo, l’uscita dalla NATO da parte dei paesi, o porzioni di paesi, o nuove unità politiche da loro costituite, che volessero davvero avviarsi su questa strada, oltre a poter essere considerata  intrinsecamente più urgente, sarebbe presumibilmente una precondizione anche per la denuncia o la revisione degli attuali trattati europei.

7) Se l’euro e la BCE rappresentano in vari modi lo stadio finale dell’evoluzione della “moneta come debito” e del relativo sistema, è ridicolmente ingenuo supporre che mentre la BCE curerebbe gli interessi propri e/o dell’ambiente di cui è espressione, al contrario la Banca d’Inghilterra in cui Ezra Pound identifica l’origine di tutta la “questione monetaria” – che della BCE è socio qualificante! -, o la FED, o se per questo Bankitalia, costituirebbero invece campioni e difensori dei popoli compresi nella loro rispettiva area valutaria. Sino a che si resta nella prospettiva di una moneta creata dal nulla da banche centrali private ed indipendenti e da queste prestata ad usura, trasferire da Francoforte a Roma la sede di una banca d’emissione sempre controllata dalle stesse forze, e sempre funzionante secondo i medesimi principi, significa solo ritornare al primo tempo di un film di cui sappiamo già la fine.

8) Il possibile crollo del sistema euro/BCE o persino dell’intera Unione Europea è cosa che di per sé debba preoccupare un “buon europeo”? No, atteso che si tratta solo di sovrastrutture burocratiche autoreferenziali create dalle amministrazioni coloniali che dominano le nostre terre, ed indubbiamente utili ad isolare in certa misura i teatrini politicanti locali, per tanto che loro venga ancora lasciato un ruolo, dalle responsabilità e dal malcontento connesso alla loro gestione. Resta nondimeno il fatto che il ritorno ad un maggior decentramento di poteri che continuino ad essere amministrati per conto e nell’interesse di terzi dai rispettivi fiduciari locali non significa di per sé rigidamente niente in termini di riappropriazione di sovranità da parte dalle popolazioni interessate; così come allo stato non significa nulla la invariabile pretesa dei relativi fiduciari di difendere gli interessi sciovinistici del proprio feudo contro quelli degli altri feudi o nei confronti dell’eurocrazia loro globalmente preposta.

D’altronde, se un risorgimento europeo oggi appare purtroppo tanto difficile quanto desiderabile, il relativo scenario potrebbe certo essere innescato anche da alcuni paesi e/o zone che uscissero dall’Unione Europea, e prima ancora dal Consiglio d’Europa, e si associassero in una struttura alternativa federale o confederale in aperta contrapposizione a tali istituzioni quanto agli stati-fantoccio che dominano le nostre terre, e che fosse dotata di un proprio governo e di una propria forza militare e di una propria politica economica, in vista di un processo di liberazione nazionale europea teso ad acquisire progressivamente i territori che diventasse via via possibile liberare. Inoltre, se tale scenario resta per il momento remoto, è sostanzialmente impossibile raffigurarselo prescindendo dal ruolo che in esso verrebbe a rivestire in primo luogo quella parte d’Europa che dell’Unione Europea non fa affatto parte, a cominciare dalla Federazione Russa. Ed è su questo linea che appare ragionevole che un patriota europeo voglia muoversi.

Stefano Vaj

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