Roma, 14 set – Negli ultimi 25 anni le imposte patrimoniali sono costate agli italiani la cifra record di 48,6 miliardi di euro. In termini assoluti, la loro incidenza sul Pil è raddoppiata, il gettito è aumentato di quasi cinque volte. A segnalarlo è l’Ufficio studi della CGIA che dopo averle “identificate” ne ha calcolato l’impatto che queste hanno avuto sulle tasche dei contribuenti.
Finalmente, quindi, una buona notizia. Il fisco colpisce la rendita parassitaria. Il principio di progressività delle imposte è rispettato: anche i ricchi devono piangere. A sinistra, però, si segnala un cortocircuito: Matteo Renzi promette di abolire l’Imu, nonostante l’opposizione interna al Pd.
Anche se il nostro premier è affidabile come il Mago Otelma, la Cgia di Mestre, prende per buone le sue parole. Secondo Paolo Zabeo della Cgia: “Se il Governo confermerà l’abolizione delle tasse che gravano sulla prima casa, dell’Imu agricola e quella sugli imbullonati nel 2016 dovremmo risparmiare 4,6 miliardi di euro: vale a dire uno sconto che sfiora il 10 per cento”. Inoltre, per dimostrare la bontà di questi dati l’Ufficio studi della Cgia fa un rapido excursus sulle imposte patrimoniali negli ultimi cinque lustri.
Il risultato è sconcertante. Sul contribuente gravano quindici imposte patrimoniali anche se a far più male sono le tasse sulle abitazioni e sugli immobili strumentali, ovvero Tasi e Imu, garantiscono oltre la metà del gettito complessivo. L’anno scorso, ad esempio, per onorare questi due tributi famiglie, imprese e lavoratori autonomi hanno versato ben 24,7 miliardi di euro.
Prima di addentrarci nei numeri è bene definire in maniera più precisa il significato di questi termini. Le imposte patrimoniali sono calcolate sulla base della ricchezza (beni mobili e immobili) posseduta dalle persone in un determinato momento. Per il diritto tributario le imposte patrimoniali sono imposte dirette, ossia colpiscono direttamente la capacità contributiva senza attendere che si verifichino fatti o atti particolari. Mentre le imposte indirette richiedono, per poter essere applicate, il verificarsi di un determinato evento.
A partire dal 1992 si è assistito a un crescendo rossiniano. Prima l’Ici (Imposta comunale sugli immobili) poi Isi che pur applicandosi sulla medesima base imponibile, prevedeva delle aliquote più elevate. Ed infine nel 1997 L’Irap.
Il contribuente ha respirato un po’ nel 2008 grazie all’abolizione dell’Ici. Poi, però, sono arrivate le batoste dei governi tecnici. Nel 2012 il Decreto Salva Italia ha inasprito fortemente la tassazione patrimoniale, introducendo diverse forme di tassazione.
Facciamo un rapido elenco: l’Imu sugli immobili, prelievi che hanno interessato i beni di lusso (auto di grossa cilindrata, i natanti e gli aeromobili), l’applicazione dell’imposta proporzionale di bollo sulle disponibilità finanziarie.
Nel 2014, infine, è stata introdotta la Tasi che assieme all’Imu e alla Tari costituiscono la Iuc, ovvero l’Imposta unica comunale. Il presupposto della Tasi, pur essendo collegato all’erogazione e alla fruizione di servizi comunali, si basa sul possesso o la detenzione di un immobile, anche ad uso abitativo. Pertanto, questa nuova tassa è un’imposta patrimoniale. Il risultato è che in venticinque anni le tasse sui patrimoni sono quadruplicate.
Qualcuno penserà bene così, in fondo pagano i ricchi Questo è ciò che fanno credere le grandi istituzioni finanziarie. Il rapporto realizzato dall’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) In it together: why less inequality benefits all ha mostrato che “In Italia il 21 per cento più ricco della popolazione detiene il 60 per cento della ricchezza del Paese, mentre il 40 per cento più povero ne controlla solamente il 4.9 per cento. In sintesi, il 10 per cento più povero degli italiani ha perso il 4 per cento della ricchezza, contro l’1 per cento perso dal 10 per cento più ricco”.
Il messaggio dell’Ocse è chiaro: se il ceto medio paga più tasse si abbattono le diseguaglianze sociali. Confutare questa affermazione è semplice. Facciamo un esempio alla portata di tutti.
Analizziamo, come un piccolo microcosmo, un bel palazzo situato nella “Roma bene”. Partiamo dalla guardiola. Il portiere dello stabile non paga l’affitto per vivere in condominio così prestigioso. Ma, se l’amministratore di condominio mette i video citofoni per lui sono guai. Quindi, dopo tanti sacrifici, decide di farsi un mutuo per comprarsi una casa. Se verrà licenziato almeno non dovrà dormire con la sua famiglia sotto i ponti. Il fisco premia la sua propensione al risparmio facendogli pagare l’Imu la Tasi e le utenze come se avesse una seconda casa.
Nello stesso palazzo al primo piano c’è un giovane avvocato sposato due figli. Il futuro principe del foro, ha ereditato la casa dal padre, ma nonostante le sue brillanti prospettive per il futuro ha uno stipendio di 1500 euro mensile. Insomma, non è proprio un milionario. Ma deve pagare l’Imu perché vive in casa di lusso; anche se poi si tratta di 80 metri quadri in un palazzo degli anni Venti del secolo scorso.
Infine, poi c’è lo speculatore che con i suoi risparmi e un buon fiuto per gli affari si compra l’attico e lo affitta. In questo caso parliamo di vera rendita finanziaria. Ma in realtà si tratta solo di buoni investimenti. Il risparmio è la parte residua del reddito al netto delle tasse e di ciò che ha speso. Che senso ha tassarlo per la seconda volta? A questo punto avrebbe fatto bene ad investire all’estero in un bel paradiso fiscale. I veri palazzinari nella città eterna creano dei residence che affittano al comune guadagnando fior di quattrini.
Questi tre esempi ci dimostrano che il vero bersaglio delle tasse patrimoniali è l’economia reale che è fatta anche di patrimoni (terreni agricoli, appartamenti, o altri beni mobili). La dicotomia tra rendite e reddito da lavoro lascia il tempo che trova.
L’Erario all’impiegato trattiene le tasse in busta paga. Il proprietario di immobili non può nascondersi un appartamento sotto l’ascella come fosse una baguette. Le speculazioni finanziarie e i veri grandi capitali non passano per i registri del Catasto. Tanto per non far nomi, De Benedetti e Marchionne pagano le tasse in Svizzera. Gli Agnelli hanno quotato in Borsa la cassaforte di famiglia (la Exor spa con un fatturato di 122 miliardi di euro). Per non parlare poi delle grandi multinazionali tipo Google, Apple, Microsoft.
Questo fisco distrugge la sana propensione al risparmio per dare libero sfogo al consumismo globale. L’erario progressista non distingue un salvadanaio da un pacchetto azionario. Questo, dunque, è il punto di contatto tra le sinistre progressiste e il grande capitale. Ecco perché i miliardari Warren Buffet e Bill Gates vogliano più tasse. È facile esser generosi con il portafogli altrui.
Salvatore Recupero
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