Roma, 22 lug – Le pmi continuano ad essere l’asse portante della nostra economia: “Il 98% circa del totale delle imprese presenti in Italia ha meno di 20 addetti. Una platea costituita da oltre cinque milioni di micro imprenditori, artigiani, negozianti e liberi professionisti. Nonostante la dimensione aziendale di queste realtà sia molto contenuta, il contributo fiscale ed economico reso al Paese è rilevantissimo”. A rivelarlo è l’Ufficio studi della Cgia.
Analizziamo, ora, nel dettaglio i contenuti di questa ricerca. Al netto dei dipendenti del pubblico impiego, le aziende con meno di 20 addetti danno lavoro alla maggioranza degli italiani, vale a dire al 56,4% degli occupati. Inoltre, queste micro realtà producono il 40% del valore aggiunto nazionale annuo (un dato quest’ultimo non riscontrabile in nessun’altra grande nazione europea). Anche l’erario trae grande beneficio dal fatturato delle pmi. Nel 2017 i lavoratori autonomi e le piccolissime imprese (per intenderci solo quelle sottoposte agli studi di settore), hanno versato al fisco 43,9 miliardi di euro (pari al 53% del totale delle principali imposte versate dal sistema economico). Tutte le altre, prevalentemente medie e grandi imprese, hanno invece corrisposto “solo” 39,6 miliardi (il 47 % del totale). Non male per chi viene considerato un potenziale evasore.
Certo questo non vuol dire che la crisi abbia risparmiato le piccole aziende. Nonostante la stretta creditizia e l’elevata pressione fiscale, infatti, “abbiamo un’economia che si regge su imprese bonsai ma con performance fiscali ed economiche da giganti”, spiega Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia. “Purtroppo- continua Zabeo – a differenza di un tempo, la competitività del Paese risente soprattutto dell’assenza delle grandi imprese. Da alcuni decenni queste ultime sono scomparse, non certo per l’eccessiva numerosità delle piccole realtà produttive, ma a causa dell’incapacità dei grandi player, prevalentemente di natura pubblica, di reggere la sfida lanciata dalla globalizzazione”.
In breve: la debolezza della nostra economia non dipende certo dalle pmi. Al contrario, quest’ultime contribuiscono al benessere della nazione sia dal punto di vista occupazionale che fiscale. Il trattamento che ricevono in cambio non è dei migliori. Ad esempio l’ammontare del debito commerciale della nostra Pubblica Amministrazione nei confronti dei fornitori sfiora i sessanta miliardi di euro e circa la metà di questo importo è riconducibile ai mancati pagamenti. Senza contare poi la pervasività dei controlli fiscali: nel 2017 sono stati 1 milione e 595 mila i controlli eseguiti dall’Agenzia delle Entrate e dalla Guardia di Finanza. Sempre secondo la Cgia rispetto al 2016 l’attività ispettiva e di controllo è più che raddoppiata, in particolar modo a seguito dell’esplosione dell’attività di “compliance”, ovvero delle comunicazioni preventive con le quali l’Amministrazione finanziaria ha chiesto agli imprenditori informazioni su presunte incongruenze emerse dall’analisi della propria posizione fiscale.
I governi fino ad oggi hanno pensato ad attrarre gli investimenti esteri. Una scelta sciagurata per due motivi. In primis, perché le grandi aziende italiane (banche comprese) sono finite in mani straniere. In secundis, perché le multinazionali che hanno investito in Italia pensano di poter fare il bello e il cattivo tempo. Fortunatamente, le pmi restano l’ultimo baluardo d’italianità. Urge però, cambiare rotta per non perdere ciò che di buono è rimasto.
Salvatore Recupero
Altro che imprese "bonsai": i grandi risultati delle Pmi italiane
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1 commento
La Cgia di Mestre e’ brava con i numeri sondaggi e statistiche ma poi quando deve intepretarli viene sempre fuosi l’animo dem che li pervade. Molto meglio l’intepretazione dei dati fatta dal giornalista. Io aggiungo anche che l’alta tassazione e’ un fattore determinante pure.