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Un dato cresce in Italia: quello sulla povertà degli italiani

by Salvatore Recupero
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disoccupazione-italia-660x371[1]Roma, 20 mag – Anche quest’anno è arrivato il Rapporto Istat relativo al 2015. Per la stampa allineata al governo (praticamente tutta) ci sono luci ed ombre nelle cifre fornite dall’Istat.  Il presidente dell’Istituto di statistica Giorgio Alleva si arrampica sugli specchi pur di non intaccare l’imperante ottimismo renziano.  Alleva, infatti, afferma che: Dopo una recessione lunga e profonda (senza più termini di paragone nella storia in cui l’Istat è stato testimone in questi novanta anni) l’Italia sperimenta un primo, importante, momento di crescita persistente anche se a bassa intensità“.

Ma, cosa significa crescita persistente a bassa intensità? Fortunatamente basta rileggersi il rapporto Istat per rispondere a questa domanda. Andiamo con ordine. Cominciamo con la famiglia, il nucleo della nostra società, come direbbero i moderati. Le famiglie jobless (in cui nessuno è occupato) passano da 10,0% del 2008 a 14,2% delle famiglie con almeno un componente di 15-64 anni e senza pensionati. Tra le famiglie con più componenti aumentano quelle in cui lavora solo la donna (da 7,2% del 2004 a 10,7%) e diminuiscono le famiglie con più di un occupato (da 55,1% a 50,0%). In sintesi, 2,2 milioni di famiglie vivono senza redditi da lavoro. Ma, in fondo con il bonus bebè e con gli ottanta euro ai pensionati la loro vita cambierà radicalmente.

A proposito di disoccupazione, facciamo un rapido resoconto degli effetti del Jobs act. Il 2015, è bene ricordarlo, è stato l’anno in cui la riforma del mercato del lavoro si è unita allo sgravio contributivo per le imprese. Vediamo con quali risultati.  Secondo l’Istat nonostante l’aumento dei contratti fissi, l’incidenza del lavoro standard sul totale degli occupati è scesa al 73,4% nel 2015 dal 77% del 2008 con 1,3 milioni di occupati in meno. A trainare le assunzioni, in particolare nelle imprese manifatturiere, sono stati in primis gli sgravi contributivi. “L’utilizzo del provvedimento in questione – si legge nel rapporto Istat 2016 – ha rappresentato la principale variabile a sostegno dell’occupazione complessiva dell’impresa, determinando un aumento medio degli occupati del 18%, superiore al contributo della produttività (+12%) e di un elevato livello degli ordini e della domanda (+8,1%)”. Meno della metà delle imprese ha invece usato il contratto a tempo determinato, una su quattro ha fatto ricorso al lavoro accessorio o ai voucher. Quindi, come si è già scritto su questo sito e come confermato dagli ultimi dati dell’Inps nel 2016 col la diminuzione degli sgravi diminuiranno anche le assunzioni.

Passiamo ora ai giovani. Nel 2015 sono più di 2,3 milioni i giovani di 15-29 anni non occupati e non in formazione (Neet), di cui tre su quattro vorrebbero lavorare. I Neet sono aumentati di oltre mezzo milione sul 2008 ma diminuiscono di 64 mila unità nell’ultimo anno (-2,7%). L’incidenza dei Neet sui giovani di 15-29 anni è al 25,7% (+6,4 punti percentuali su 2008 e -0,6 punti su 2014). La condizione di Neet è più diffusa tra gli stranieri (35,4%), nel Mezzogiorno (35,3%) e tra le donne (27,1%), specie se madri (64,9%).  Aumenta però l’occupazione degli over cinquanta, quelli che vorrebbero andare in pensione.  Secondo l’Istat: “Il peso decrescente dei 15-34enni sul totale degli occupati testimonia il progressivo invecchiamento della forza lavoro. A questo si aggiunge la diversa struttura dell’occupazione: gli occupati di 55-64 anni sono più presenti nei settori tradizionali (agricoltura, servizi generali della pubblica amministrazione, istruzione e sanità), i giovani nei servizi privati, in particolare alberghi e ristoranti e commercio. Inoltre, il maggiore investimento in istruzione dei più giovani non trova riscontro nella qualifica del lavoro svolto, tanto che il numero dei sovraistruiti fra i 15-34enni è quasi il triplo di quello degli adulti”. Alla faccia del ricambio generazionale.

Diamo ora uno sguardo complessivo alla spesa sociale e alla condizione delle classi meno abbienti. Nel 2015 la povertà in Italia non è diminuita e al Sud la situazione è peggiore rispetto al Nord. “Nel Mezzogiorno la quota di persone gravemente deprivate risulta oltre tre volte più elevata che al Nord. Inoltre, il disagio economico si mantiene su livelli alti per le famiglie con a capo una persona in cerca di occupazione o con occupazione part-time”. Ma, secondo il Sole 24 Ore, bisogna evidenziare anche i dati positivi. Per esempio, il quotidiano di Confindustria, sottolinea: “Un incremento congiunturale positivo sia a gennaio sia a febbraio (+0,9 e +0,1 per cento grazie alla vivacità dei beni strumentali (+2,5 per cento in febbraio) e dei beni intermedi (+1,2 per cento). Indizi di una possibile ripresa dopo gli anni della grande crisi arrivano anche dagli ordinativi dell’industria+0,7% a febbraio grazie alla dinamica favorevole registrata dalla componente interna (+1,6 per cento). L’indice della produzione industriale ha poi registrato un sensibile aumento in gennaio (+1,7 per cento rispetto al livello di fine 2015), cui è seguito un calo contenuto (-0,6 per cento) in febbraio”. In pratica, secondo il più importante quotidiano economico del Paese,  l’Italia è come un malato di cancro che però ha vinto la sua dura battaglia contro la carie dentaria.

Infatti, nonostante la politica degli ottanta euro, il sistema di protezione sociale italiano è tra i meno efficaci a livello europeo. La spesa pensionistica comprime il resto dei trasferimenti sociali, aumentando così il rischio povertà. Solo in Grecia il sistema di aiuti è meno efficiente che in Italia. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata tra il 1990 e il 2010; si tratta peraltro dell’incremento più alto tra i paesi per i quali sono disponibili i dati. Il reddito familiare è un fattore determinante: nel nostro Paese, il vantaggio degli individui con status di partenza “alto” (ossia che a quattordici anni vivevano in casa di proprietà e che avevano almeno un genitore con istruzione universitaria), rispetto a quelli provenienti da famiglie di status “basso” (cioè con genitori con istruzione di livello basso e con casa in affitto) è molto forte.

I titoli di alcuni giornali però puntano l’indice contro i “giovani bamboccioni”.  Più di sei giovani su 10 (62,5%) tra i diciotto e i trentaquattro anni vivevano ancora a casa con i genitori. Chissà perché i giovani davanti ad istituzioni così efficienti non raggiungono la loro indipendenza economica? Inoltre, la popolazione italiana diminuisce e invecchia. “Al primo gennaio 2016 la stima è di 60,7 milioni di residenti (-139 mila sull’anno precedente) mentre gli over 64 sono 161,1 ogni 100 giovani con meno di 15 anni. Nel desolante quadro demografico si inserisce il nuovo minimo storico dall’Unità d’Italia per le nascite: nel 2015 sono state 488 mila, 15 mila in meno rispetto al 2014. Per il quinto anno consecutivo diminuisce la fecondità, solo 1,35 i figli per donna”. Quale può essere, dunque, la soluzione migliore per uscire da questo pantano?  Secondo i moderati è bene abbassare la spesa pubblica corrente per aumentare gli investimenti. Peccato però che finora questa ricetta si è rilavata controproducente. Secondo la vulgata comune, la riduzione della spesa pubblica libera liquidità monetaria per il sociale. Tutto ciò è falso perché non considera che le politiche sociali sono già incluse nella spesa pubblica e che riducendola si riduce anche la capacità di intervento nel sociale. Bisogna, dunque, cambiare rotta. Vediamo come. Per esempio, l’Italia, invece di chiedere più flessibilità, potrebbe costruire una nuova sovranità monetaria, rinegoziando i titoli di debito pubblico contratti con le banche private. Ma, questo per i moderati è impossibile! E allora accontentiamoci di una crescita persistente a bassa intensità.

Salvatore Recupero

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