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Privatizzare, ma con garbo. Il caso Poste italiane

by Gabriele Taddei
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catricalàRoma, 23 gen – Notizie buone e notizie cattive per Poste Italiane. Il boccone amaro conferma la privatizzazione del gruppo, la glassa zuccherina di cui è infarcito consente di mantenere allo Stato sia il controllo che la maggioranza azionaria della società dopo il lancio in borsa.

Martedì mattina si è tenuta infatti alla commissione Trasporti della Camera dei Deputati un’audizione, riguardante il rinnovo del contratto di programma e la ridefinizione della convenzione con Cassa depositi e prestiti (Cdp) scaduta il 31 dicembre scorso, presieduta dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Filippo Patroni Griffi, e dal viceministro dello Sviluppo economico con delega alle telecomunicazioni, Antonio Catricalà.

Durante la riunione quest’ultimo ha confessato nuove informazioni riguardanti il futuro di Poste, la cui privatizzazione pare essere più vicina di quanto vagheggiato solo pochi giorni fa. Ritenendo che la cessione “comporterà una provvista di risorse utili a ridurre la nostra esposizione debitoria e sarà anche strumento di incentivo per la maggiore efficienza dei servizi e per l’ampliamento dell’offerta”, ne prevede quindi i termini immaginando “un periodo tra i 5 e i 6 mesi per definire i dettagli dell’operazione e concluderla”. Mesi in cui sarà portato avanti l’iter del caso: stesura di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ad hoc, sua approvazione, trasmissione al Parlamento, discussione delle commissioni apposite, approvazione finale del CdM e pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, per poi ovviamente presentare l’operazione a Consob e Piazza Affari.

Come già ampiamente riportato su queste pagine, la privatizzazione di Poste andrà ad incidere su quello che allo stato attuale dei fatti è il secondo gruppo europeo per fatturato ed utile netto, un gigante con quasi 140mila dipendenti la cui redditività attuale ammonta ad un miliardo secco, con all’attivo 50 milioni di operazioni, 220mila pacchi ed oltre 14 milioni di lettere per il servizio tradizionale, cui si aggiungono 26.400 postini telematici, 340 miliardi di risparmi raccolti, 15 miliardi di introiti da servizi finanziari e assicurativi e 2,8 milioni di clienti per Poste mobile.
Viene di conseguenza quanto l’immissione sul mercato di una quota plausibilmente pari ad un 40% del capitale vada ad incidere a lungo termine negativamente sulle casse statali e quanto sarà invece drenato dai privati, magari oltreconfine.

Indiscrezioni al momento prevedono la cessione della quota di minoranza in due-tre tempi, tramite diverse modalità Ipo e private equity, al momento non comunicata ufficialmente ed in discussione al Comitato per le privatizzazioni presso il Ministero dell’Economia e Finanze, che per un 40% significa attualmente un massimo – inverosimile – di circa 5,6 miliardi di euro, in quanto proprio stamani il governo ha aumentato le stime di valore di Poste Italiane valutandola tra i 10 ed i 14 miliardi.
l43-poste-italiane-140108190124_bigC’è da dire che, perseverando con la nostra immagine alimentare, la glassa sia anche ricoperta di zuccherini, in quanto fortunatamente non si è usato per adesso, come spesso accade in questi casi, tagliare la cornucopia con l’accetta. “Per continuare a creare valore il governo ritiene che il processo di privatizzazione del gruppo Poste Italiane debba avvenire mantenendo l’unitarietà del gruppo”, continua nelle sue dichiarazioni il viceministro.

Il che significa vendita di porzioni azionarie e non di asset produttivi separati. In poche parole lo Stato mantiene il controllo di Poste, mettendone sul mercato una quota minoritaria e mantenendo il gigante unito, senza svendere i vari servizi pezzo per pezzo alle multinazionali dei rispettivi settori.

L’alternativa appunto, richiesta dalla speculazione furbetta, è quella dello spezzatino tra almeno più good companies ed una bad company: separare Poste Vita e Banco Posta, le attività del gruppo che generano redditività, ma anche probabilmente PosteMobile e Postel per far annegare il resto dell’azienda. Una storia già vista e che speriamo non si ripeta: Poste Italiane è l’unica azienda postale al mondo che sta riuscendo a rimanere a galla nel processo di obsolescenza attraversato dalla posta tradizionale, in quanto preventivamente ha saputo guardarsi intorno e dare vita ad un variegato sistema di servizi: banca, assicurazioni, prodotti finanziari, e-commerce, corriere, recapito, provider internet e di telefonia mobile, con i quali è stato possibile creare utile, compensando le perdite – di 400 milioni lo scorso anno – che vengono puntualmente realizzate con il servizio postale, “missione” obbligatoria per il gruppo. E’ chiaro a questo punto che Poste è un soggetto conglomerale, con attività piuttosto diversificate, retto appunto da ricavi che per il 61% sono generati dal reparto assicurativo e per un altro 30% circa da quello del risparmio, una forza che da questi settori promana rendendo il gruppo capace di spingere nuove attività: come la controllata Postel, rigenerata ed indirizzata verso il ruolo di leader del mercato per la dematerializzazione dei documenti cartacei, o come l’attività rivolta sul fronte della sicurezza informatica.

Altra chicca che appare confermata, prevede l’ingresso dei lavoratori all’interno della gestione aziendale. Sembra infatti che, come già avvenuto in cinque nazioni europee su sei (Austria, Belgio, Germania, Portogallo e Regno Unito, e non nei Paesi Bassi) all’atto della privatizzazione, una quota consistente del pacchetto azionario immesso sul mercato – si parla del 5-10% del totale – possa essere riservato ai dipendenti del gruppo stesso. Una misura innovativa per il sistema attuale, ma non certo originale nella storia della nostra Italia che già settanta anni fa ha mostrato al mondo la socializzazione delle imprese e dei mezzi di produzione, che permetterebbe l’ingresso di un rappresentante dei lavoratori all’interno del consiglio d’amministrazione d’azienda, la partecipazione decisionale ed agli utili d’esercizio da parte del personale.
Un’innovazione che fa una paura matta ad una CGIL, il primo editto dei cui padri fu la legge sulla socializzazione all’alba della liberazione, incancrenita sull’antica divaricazione tra padronato e lavoratori e che dichiara contrariata che “il rischio d’impresa va assunto dai manager”.

Probabilmente per il sindacato rosso in questo caso la Costituzione italiana non è “la più bella del mondo” e l’ostilità ad un diritto sancito dall’articolo 46 è pari soltanto a quella dei cosiddetti “avversari” di Confindustria.

Gabriele Taddei

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