Roma, 17 dic – Gli investitori sembrano aprire all’ipotesi. E già questo dovrebbe far riflettere e prendere un momento di calma. Se si farà, comunque, sarà solo con l’anno nuovo. La privatizzazione di Poste parte sotto i “migliori” auspici per un collocamento azionario, segno che probabilmente non è il mercato ad efficientare la concorrenza ma le aziende che al mercato si rivolgono ad essere prima delle solide realtà e solo dopo appetibili per l’investimento. Un cambio di paradigma rispetto al consolidato pensiero classico.
Poste Italiane è un gruppo storico, che nasce l’anno successivo all’unificazione nazionale e ha quindi anch’essa compiuto i suoi primi 150 anni. L’ambito di azione industriale spazia dalla tradizionale corrispondenza alla raccolta del risparmio e dalle assicurazioni fino, ultimo in ordine di tempo, all’assunzione di partecipazioni strategiche come nel caso Alitalia. Con quasi 150mila dipendenti e più di 14mila uffici postali è di gran lunga il gruppo (anche) bancario più capillarmente diffuso nella penisola. Negli ultimi anni, inoltre, si è anche levata d’indosso la nomea di ennesimo carrozzone pubblico quando, con il decennio di amministrazione a guida Massimo Sarmi, è riuscita a più che raddoppiare i ricavi fino a quota 24 miliardi e a moltiplicare di cinquanta volte l’utile netto che veleggia costantemente sopra il miliardo di euro. Il valore dell’azienda in sé, a seconda delle stime, si attesta tra i 10 e i 12 miliardi di euro.
Stante che il controllo del 100% della società è in mano al ministero dell’Economia e gli utili contribuiscono quindi direttamente alle esigenze di finanza pubblica, l’unica motivazione plausibile per un collocamento a Piazza Affari è l’annosa esigenza di far cassa immediata per abbattere la montagna di debito. Una strada già percorsa in passato e che non ha pressoché prodotto risultati apprezzabili. Dalle prime indiscrezioni lo Stato manterrebbe almeno il 60% e quindi il pacchetto di maggioranza assoluta, precludendo così il controllo di un’attività di importantissima valenza ad altri soggetti diversi dal pubblico.
Al di là del rinnovato impegno verso le privatizzazioni che coinvolgeranno anche le controllate di Cassa Depositi e Prestiti (tra cui Fincantieri, Sace, Snam e Terna), va tuttavia rilevata un’interessante novità. Se privatizzazione dovrà essere, infatti, vedrà coinvolta non sono gli investitori istituzionali e al dettaglio ma anche i dipendenti del gruppo. E’ infatti allo studio la possibilità di includerli nella partecipazione con una quota gratuita e riservata tra il 2% e il 5% del capitale destinato al mercato (e quindi al più il 2% del totale quotato) e con il diritto non solo di partecipare ai dividendi ma anche di vedersi riconosciuto un rappresentate dedicato in consiglio di amministrazione. Una scelta questa che è sostanzialmente una novità nel panorama italiano –a differenza, ad esempio, di quello tedesco– e che mira a coinvolgere i lavoratori come soggetti essenziali nella vita d’impresa. Ipotesi che tra l’altro è esplicitamente prevista nel dettato costituzionale all’articolo 46.
Filippo Burla