Bari, 30 lug – Lo stabilimento pugliese di Bridgestone, che due anni fa la dirigenza aveva annunciato di voler chiudere, ritorna agli onori delle cronache. E non lo fa per decisioni sulla convenienza produttiva del sito, ma per una (brutta) storia di ricatto occupazionale: condizioni peggiorative, oppure 200 dipendenti andranno a casa.
Facciamo un passo indietro. Nel 2013 il colosso giapponese della produzione di pneumatici annuncia che la fabbrica di Bari sarà soggetta a delocalizzazione. Scarsa rete infrastrutturale, troppo alto il costo dell’energia, troppo asfittica -rectius: in discesa verticale- la domanda interna per continuare a sopportare i costi dello stabilimento. Risultato? 950 persone a rischio licenziamento. Interviene allora il governo e l’azienda fa marcia indietro quando Invitalia, l’agenzia governativa nazionale per l’attrazione degli investimenti, annuncia di contribuire con 12.4 milioni di euro a fondo perduto alla reindustrializzazione. “La firma di oggi è doppiamente importante perché da un lato consente di rilanciare un importante sito produttivo che nei mesi scorsi rischiava la chiusura, dall’altro conferma l’efficacia del Contratto di Sviluppo nel favorire investimenti nel Sud da parte di multinazionali straniere. È la dimostrazione che la semplificazione delle procedure e la riduzione dei tempi sono il miglior incentivo per chi vuole investire“, aveva affermato all’epoca Domenico Arcuri, amministratore delegato di Bridgestone Italia.
E veniamo ad oggi, a meno di due anni di distanza. Presi i contributi pubblici, Bridgestone riporta ancora la questione agli onori delle cronache. Secondo quanto si apprende, durante un’infuocata assemblea sindacale sarebbero state messe nero su bianco i dettagli del piano aziendale per la riduzione del costo del lavoro: eliminazione del cottimo, via ad alcuni scatti di anzianità, riduzione delle indennità per lavoro notturno. Ai lavoratori, che dopo l’accordo del 2013 -nel quale avevano perso mensa e mini quattordicesima- avevano già perso circa 400 euro mensili, si chiede così un sacrificio che può arrivare ad altri 300 euro sempre sui 30 giorni. In totale fanno 700 euro in meno in busta nel giro di due anni.
“Ci stanno togliendo tutti i diritti in alternativa possiamo andare via, in maniera incentivata: siamo perennemente sotto ricatto”, spiegano i lavoratori. Oltre a ciò, sarebbero confermati quasi 200 licenziamenti, che diventerebbero molti di più qualora il piano non dovesse passare il referendum indetto per oggi.
Filippo Burla
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