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Trieste: così il porto giuliano è finito nelle mani dei cinesi

by Salvatore Recupero
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Trieste, 24 nov – A Trieste il 22 novembre scorso si è svolta la seconda edizione del Belt and Road Summit: from vision to action”, organizzato da The European House – Ambrosetti in collaborazione con il China Development Institute. Il clima è stato disteso e cordiale come sempre avviene in queste occasioni. Da segnalare la presenza dell’ambasciatore cinese a Roma Li Junhua, e dei rappresentanti di Uzbekistan, Turchia, Azerbaijan, Iran. In prima fila anche il presidente della regione Massimiliano Fedriga, che auspica la nascita di legami economici e culturali. A detta di tutti i partecipanti la collaborazione con Pechino, dunque, è un buon affare per gli italiani. Siamo sicuri che le cose siano davvero così?

I benefici saranno reciproci?

L’incontro è stata un’occasione per presentare i dati e le analisi più recenti relativi alle attività e agli investimenti generati dall’iniziativa Belt and Road (la nuova Via della Seta), attraverso due studi condotti da ricercatori cinesi e italiani. Grazie alla mappa strategica della BRI a cura del centro studi di The European House – Ambrosetti, i partecipanti hanno avuto modo di visualizzare le attività che hanno preso vita dall’iniziativa.

Gli analisti, numeri alla mano, hanno cercato di dimostrare che lo sviluppo dei commerci dalla Cina all’Europa è un volano per gli investimenti su tutta la direttrice euroasiatica. L’economista Fan Gang parlando di una Via della Seta versione 2.0 ha posto l’accento “sulla connettività e le infrastrutture: strade, porti, ferrovie”. Senza tralasciare anche il tema della produttività: è necessario implementare “la capacità di produrre e generare profitto, per pagare profitti e utilizzare le infrastrutture che abbiamo costruito”. A nessuno sfugge che il quadro disegnato dagli organizzatori di quest’evento è fin troppo idilliaco. A detta dei partecipanti al convegno sono infondate le preoccupazioni per la firma degli accordi tra porto di Trieste e autorità cinesi. Per Paolo Borzatta, la sinergia con il partner asiatico rafforzerà l’esportazione dei nostri prodotti verso le nazioni dell’Est. Ovviamente gli italiani devono saper sfruttare questa situazione. Secondo Zeno D’Agostino, presidente dell’Autorità di Sistema Portuale di Trieste e Monfalcone: “La nuova via della seta è uno strumento, non un obiettivo. I cinesi sanno bene dove vogliono andare. Noi dobbiamo cercare di fare altrettanto”. Purtroppo, però non è tutto oro quello che luccica. Vediamo perché.

I possibili rischi

Facciamo un piccolo passo indietro. Lo scorso marzo è stato firmato a Roma l’accordo di cooperazione tra il porto di Trieste e il gruppo cinese China Communication Construction Company – CCCC, che favorirà l’infrastrutturazione in Centro Europa e aumenterà le possibilità di accesso dei prodotti delle piccole e medie imprese italiane presso i mercati cinesi. “Con questo accordo – dichiarò il presidente dell’Autorità Zeno D’Agostino – puntiamo ad organizzare la logistica in uscita dal porto. Il nostro impegno è quello di supportare le esportazioni in Cina e nel Far East delle nostre Pmi, che non hanno le dimensioni idonee ad affrontare questo tipo di investimenti. L’Autorità di Sistema si mette a disposizione delle imprese italiane per sviluppare in Cina piattaforme logistiche e portuali che permettano al Made in Italy di raggiungere i flussi commerciali verso questo grande mercato in espansione”. Insomma, si trattava di un’opportunità che non potevamo perdere. Va, tuttavia sottolineato un aspetto che molti sottovalutano. CCCC, detenuta dallo Stato cinese, è una delle più grandi imprese mondiali del settore delle infrastrutture, quotata alle borse di Hong Kong e Shanghai. CCCC è presente in 155 paesi, con un fatturato annuale di gruppo superiore ai 90 miliardi di dollari USA, in possesso di elevato know-how nel settore delle infrastrutture di trasporto. Per intenderci, non è un accordo tra pari ma tra un’autorità portuale e lo stato Cinese.

Il fu Celeste Impero dunque mette le mani su uno dei più importanti snodi portuali del Mediterraneo. Ma non è tutto: Trieste gode non solo dello status di porto franco (concesso nel 1719 dall’Imperatore Carlo VI d’Asburgo) ma anche dell’extraterritorialità, ai sensi del Trattato di Parigi del 1947 firmato dall’Italia con le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. A tutelare il rispetto di questo trattato ci sono il Regno Unito e gli Usa. Nel caso in cui i progetti del gigante asiatico subissero l’ostruzionismo dei britannici e degli statunitensi, Pechino potrebbe far valere l’extraterritorialità del porto di Trieste scontrandosi contro gli inglesi e gli americani. L’Italia a questo punto si troverebbe ad essere il campo di battaglia di potenze straniere senza aver alcuna voce in capitolo. In pratica, cambia il padrone ma rimaniamo ugualmente servi.

La Via della Seta come la rete del ragno

Il problema però non è solo italiano, ma riguarda tutta l’Europa. Trieste, in fondo è solo un hub. Infatti, mentre le nazioni europee battibeccano tra di loro, i cinesi accrescono la loro forza. Lo scorso 23 marzo (quando è stato firmato il tanto discusso “memorandum” di intesa tra Italia e Cina) l’ex presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker sottolineò che “gli investimenti non dovrebbero essere esclusivamente cinesi” e che “le aziende europee non hanno le stesse possibilità sul mercato cinese rispetto alle aziende cinesi che operano in Europa”. Le parole più dure giunsero da Parigi. Emmanuel Macron si scagliò contro il governo italiano definendolo “ingenuo” ed incapace di comprendere che l’investimento cinese in infrastrutture è solo un modo per aumentare l’influenza economica e politica della Cina in Europa. Forse però si trattava di gelosia. L’Eliseo, infatti, ha siglato con la RPC una serie di accordi per un valore complessivo superiore ai 40 miliardi di euro.

I paesi del vecchio blocco comunista preferiscono dialogare con Pechino piuttosto che con Bruxelles. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: dall’acquisizione del Pireo alle infrastrutture nei Balcani. Tutto ciò non avviene solo nel Vecchio Continente ma anche in Africa e in Asia. Pechino sta costruendo il suo impero rinnovando e implementando quelle stesse piattaforme che fecero la fortuna dell’impero britannico. La Cina con la pazienza di un ragno sta costruendo la sua tela globale: chi ci finisce dentro difficilmente potrà sfuggire.

Salvatore Recupero

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2 comments

SEPP 24 Novembre 2019 - 1:59

Cinesi? perche’ esistono ancora i cinesi dopo la guerra dell’oppio?

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Edward 25 Novembre 2019 - 4:26

Guardate, quando si fa un accordo con dei cinesi, per di più comunisti, é impossibile trovare benefici reciproci…

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