Roma, 4 feb – Tramonta il “dogma” dell’italianità. Questa la sintesi dell’accordo tra Alitalia e la compagnia emiratina Etihad, intenzionata ad investire nel vettore aereo che fu compagnia di bandiera.
Non sembra essere bastata la ricapitalizzazione che, tra versamenti in conto capitale e garanzie bancarie appena giunte a perfezionamento, doveva con 300 milioni di euro sostenere il piano industriale di lungo termine. Le ipotesi di fondo puntavano, oltre ad una imprescindibile ristrutturazione dei costi, ad una rimodulazione dell’operatività: obiettivo abbandonare parte delle rotte nazionali ed europee ormai terreno di conquista delle compagnie a basso prezzo e puntare così sulle tratte intercontinentali dove ancora si trovano ampi margini di manovra. Al momento, tuttavia, la sola prima strada sembra essere stata imboccata con la previsione di almeno due migliaia di licenziamenti e riduzione dei costi per il 20% del totale. Sul secondo punto invece non si ravvisano passi significativi, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti in mezzi tecnici e cioè gli aeromobili a lungo raggio necessari per il presidio delle rotte ancora non servite direttamente dall’Italia. D’altra parte, di fronte a costi operativi improrogabili (si pensi ai rifornimenti di carburante che per i mancati pagamenti rischiavano di lasciare a terra i passeggeri) la dotazione, alla quale ha partecipato generosamente anche Poste Italiane facendo così rientrate lo Stato dalla finestra, non sembra possa avere vita lunga garantendo così solo un tempo misurabile in mesi prima di ritrovarsi di nuovo a battere cassa.
E’ così che, in occasione della visita nel golfo persico da parte del premier Enrico Letta, si bussa alla porta degli emiri. Una strada che già andava delineandosi nei mesi scorsi e che in questi giorni ha subito un’accelerazione. Le prime indiscrezioni parlano della possibilità da parte della compagnia di Abu Dhabi di entrare versano una quota non irrilevante: si parla di almeno 300 milioni, con i quali salire al 49.9% della società. Una boccata d’ossigeno non indifferente, se si pensa che a quella cifra si è arrivati contando sull’impegno dei soci attuali solo dopo mesi di trattative. L’ingresso di Etihad non sarebbe però un’opera di buona volontà con gli sceicchi a fare da cavalieri bianchi. Ogni trattativa commerciale si fonda infatti su un reciproco interesse: una stretta alleanza commerciale per Alitalia (oltre a quella con Air France, che stando alle parole dell’ad Gabriele Del Torchio si prolungherà fino al 2017), le risorse necessarie per ritornare ad investire sul piano industriale e l’ingresso in grande stile per il vettore del golfo all’interno del mercato europeo, dove già controlla quote di compagnie aeree minori.
Un altro pezzo di Italia che se ne va? Forse che sì, forse che no. L’italianità era già persa da un pezzo e cioè da quando i francesi, forti della loro posizione di azionisti, hanno impedito il necessario sviluppo in quanto diretti concorrenti. Senza una strategia di ampio respiro, sono inoltre mancati i necessari interventi sulle infrastrutture di trasporto e prime fra tutte i collegamenti intermodali tra aeroporti e territorio. Segni questi dell’incapacità dell’imprenditoria privata di investire con successo assumendosi il rischio dei capitali propri, una vicenda di storia industriale che la nazione si porta appresso da almeno 150 anni. Di fronte all’inerzia anche dello Stato –i 75 milioni di intervento tramite Poste Italiane sono una minima operazione di trucco, non incisiva quanto dovrebbe– la via del ricorso capitali stranieri sembra così diventare, stanti le mancanze interne, l’unica strada percorribile. Certo si tratta sempre di investimenti, ma allo stesso tempo è sintomo di una desertificazione industriale in potenza: 300 milioni non sono briciole e una colonia può anche essere benestante, ma sempre colonia rimane. Con tutto il corollario di decisioni prese all’estero e sulle quali le leve nazionali poco hanno su cui insistere, come il caso Electrolux insegna.
Filippo Burla
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[…] tempo difendere la “nazionalità” di un settore equivale, almeno nel caso italiano e la stessa storia recente di Alitalia lo dimostra, a richiedere la classica botte piena e moglie ubriaca. L’italianità (o l’europeità […]