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Spianare il politicamente corretto: elogio della ruspa

by Francesco Borgonovo
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ruspaRoma, 31 mag – Forse è ora di tessere un elogio della ruspa, tanto vituperata in queste settimane per il solo fatto di esser stata più volte evocata da Matteo Salvini. È ora di dire che la ruspa non è simbolo di oppressione, i suoi cingoli non sono quelli sovietici che schiacciano l’asfalto assieme alle libertà dei popoli.

Sì, forse ha un lato barbarico, la ruspa. Ma è una barbara libertà. La ruspa è liberatoria. Distrugge le recinzioni, sgretola i muri, sia quelli di mattoni sia quelli metaforici. Allora che sia ruspa sgretolatrice sui campi rom, perché gli zingari meritano di essere liberati.

Prima di tutto, liberati da quelle prigioni che sono i campi, in cui spesso fermenta una vita cattiva, in cui l’illegalità è sempre in procinto di diventare endemica. Basta leggere la descrizione che ha fatto ieri Attilio Bolzoni del campo della Monachina, quello da cui vengono i tre minorenni sospettati di aver falciato con l’auto una decina di persone uccidendone una, un’incolpelvole colf filippina.

Scorrendo le frasi dell’articolo su Repubblica si rabbrividiva: «Monnezza, miasmi, pozze di acqua fetida, legno che brucia». Bolzoni ha narrato con prosa vivida «la Monachina e la sua putrefazione», e il risultato è impietoso. Come si fa a vivere in un posto del genere? Che cosa ne può scaturire? Non del bene, sicuro. E non lo diciamo noi, presunti «sciacalli». Lo dice Enrico Feroci, dirigente della Caritas, un prete: «I campi rom vanno chiusi. (…) Rischiano di essere scuole di malaffare, covi dove comandano mafiosi, prepotenti, delinquenti e violenti». Da questa «putrefazione» gli zingari meritano di essere liberati.

Poi, meritano che la ruspa distrugga quel muro sconcio di politicamente corretto che li ammanta qualunque cosa facciano, e che è la loro principale rovina. Anche perché i primi a fare strame della correttezza politica sono proprio i rom della Monachina. Attilio Bolzoni ha intervistato il capo del campo – un bosniaco che regna su altri bosniaci – il quale ha voluto rimarcare che i tre accusati di omicidio stradale (sempre rom, ma romeni) «non sono come noi». Non sono la sua gente, sono diversi.Infatti vivono in un’area separata, circondata da un muro. Un campo nel campo, perché c’è sempre qualcuno che è più «zingaro» degli altri.

E sentite cosa dice, sempre a Repubblica, un altro rom, un anziano rispettato del campo vicino all’ospedale San Filippo Neri: «Si stava bene quando non c’erano gli albanesi, i marocchini e i tunisini. E poi quelli della Monachina non è vero che sono croati, sono montegrini». Ecco, si può fingere che i confini non ci siano, si può propagandare l’integrazione cristallina: ma il confine si manifesta da solo, ruvido e crudo.

Per questo va sgretolata la bolla di bugie che circonda i rom, e blocca qualunque discorso sul loro conto con la scusa della discriminazione. Ruspa metaforica, quindi, a sbriciolare le fumisterie dei professionisti del piagnisteo, i difensori d’ufficio dei rom nelle tribune televisive. Personaggi come Dijana Pavlovic, la piacente «attrice» già militante della sinistra radicale. Ieri nel programma di Alessandro Milan su Radio24 ha paragonato Salvini a Hitler, dicendo che «istiga all’odio razziale». Certo, se i campi rom fossero chiusi, se gli zingari smettessero di essere una «minoranza perseguitata» per statuto, questi avvocati dei buoni sentimenti non avrebbero più ragion d’essere, perderebbero il riflettore che li illumina.

Che rombi la ruspa, allora. E che gli zingari diventino una volta per tutte cittadini come gli altri, se italiani. Perché il fastidio diffuso nei loro confronti non è motivato da razzismo: le persone comuni non odiano i rom. Però non capiscono perché – citiamo il caso più recente e clamoroso – un signore come Bahto Halilovic, giovedì sera, potesse starsene bello, tranquillo e sbronzo a biascicare idiozie su Rete4 invece di essere dietro le sbarre. Costui è intestatario di 24 auto (provateci voi, a fare lo stesso, e vedrete che succede), una delle quali, forse guidata da suo figlio Entuli (minorenne), ha ucciso una donna e ferito altre otto persone. Non solo: Bahto è andato prima alla polizia e poi in tv ad autoaccusarsi del crimine, a inquinare le acque, probabilmente per coprire il suo rampollo (tuttora irreperibile). Eppure Bahto resta libero.

È questo genere di ingiustizia, di discriminazione vera, a far imbestialire gli italiani. È tanto lampante che persino a sinistra c’è chi ha dato qualche debole e tardivo segno di risveglio. Oltre ad Adriano Celentano, che ha dichiarato: «Comincio a pensare a Salvini» (poi la collezione degli endorsement è completa), c’è persino Michele Serra, che ieri a denti stretti ha ammesso «l’evidenza di una questione sociale annosa, (…) quella della difficile integrazione dei rom».

Allora che sia ruspa sui campi, definiti «ghetti» persino dalla correttissima Ue. Che crollino le mistificazioni, l’obbligo di chiamare i rom «nomadi» perché «zingari» non si può dire. Nomadi non lo sono da un pezzo, ma continuiamo a definirli tali, li abbiamo resi una fetta d’umanità a statuto speciale. E se talora vengono trattati come «paria», come «intoccabili», è perché ci ostiniamo a renderli intoccabili dalla legge. Protetti da tutto, tranne che da loro stessi.

Francesco Borgonovo

(articolo tratto da Libero di sabato 30 maggio 2015)

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1 commento

Giuliano Grasselli 2 Agosto 2015 - 3:17

Bravo, ben scritto. Considera anche la situazione nella ex Cecoslovacchia. Dopo la pulizia etnica delle leggi Benes del 1945 le case di 4 milioni di Tedeschi cacciati erano rimaste vuote. Il governo escogitò di fissarvi gli Zingari. Ora i risultati i possono vedere, sia a Krumlov, sia nei Sudeti, sia nella Zipser Sachsen.
Noi Italiani dovremmo fare esperienza dai tentativi degli altri.

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