Roma, 1 lug – Dal celebre “Ma abbiamo una banca?” chiesto dall’allora segretario degli allora Democratici di Sinistra Piero Fassino all’amministratore delegato di Unipol Giovanni Consorte in merito al tentativo, da parte di quest’ultimo, di scalata alla Banca Nazionale del Lavoro (poi finita ai francesi di Bnp Paribas), ne è passata di acqua sotto i ponti. Fassino non è più segretario e nemmeno sindaco di Torino e la svolta centrista ha trasformato i Ds nel Partito Democratico. Ciò che non sembra invece essere cambiato è l’atteggiamento che lega la galassia degli ex comunisti fusi con ampie fette degli ex democristiani al mondo delle banche.
Un atteggiamento dubbio, ambiguo e spesso di reciproco (conflitto di) interesse, che negli ultimi anni e con la crisi economica e del credito è prepotentemente riemerso agli onori delle cronache. A partire da Mps, il più antico istituto del mondo tanto elogiato perfino da Ezra Pound che ha superato guerre, carestie, la peste, innumerevoli e anche sanguinosi e cruenti cambi di governo ma non ha retto a qualche decennio di scriteriata gestione ispirata dalla sinistra. Tre ricapitalizzazioni in pochi anni hanno praticamente estromesso la Fondazione dall’azionariato, togliendo alla banca il radicato e storico rapporto con il territorio. Renzi assicurava sul suo risanamento salvo veder sprofondare in pochi mesi il valore delle azioni, di fatto azzerando i risparmi di chi aveva avuto l’ardire di fidarsi del premier.
Mps è solo il più noto degli errori, colposi o dolosi che siano, fatti dall’esecutivo sul tema banche. C’è però anche dell’altro. Ad esempio, a marzo dell’anno scorso, sono state semplificate le modalità di pignoramento di una casa qualora il mutuatario non paghi le rate. La scadenza è passata da 7 a 18 mesi, è vero, ma allo stesso tempo è stato eliminato il passaggio in tribunale prima necessario affinché un soggetto terzo (il giudice) potesse valutare nel merito il caso.
La vicenda più surreale e che dà la cifra del pressapochismo con cui il governo tenta comunque di impegnarsi per dare una mano alle banche è però il caso delle quote di Banca d’Italia. Ferme ai valori del 1936, nel 2014 sono state rivalutate passando dal valore nominale di 156mila a quello di 7,5 miliardi di euro. In questo modo, le banche azioniste dell’istituto centrale hanno potuto incrementare il valore della partecipazione, con effetti positivi in termini di patrimonio. Mossa che però non ha cambiato di una virgola i problemi di capitalizzazione, dato che vista l’illiquidità delle azioni di Banca d’Italia queste non possono essere computate all’interno dei parametri previsti dalle normative comunitarie sull’adeguatezza della dotazione patrimoniale degli istituti. Non sorprende che, in sede di approvazione del decreto, di fronte alle proteste dei Cinque Stelle i parlamentari Pd si siano alzati a cantare tutti in coro “Bella Ciao”: di finzioni è piena la storia.
Ultima in ordine di tempo è la vicenda delle Popolari Venete, che ricalca quella di Etruria e socie finite nel tritacarne di un bail-in approvato nell’ennesimo slancio appiattito sull’europeismo più intransigente e costato caro ai risparmiatori (ma che almeno per ora sembra aver salvato babbo Boschi). L’indegno accordo siglato con Intesa, che riceve attività più o meno a scelta pagandole un euro e con dote pubblica a garanzia offre la cifra non solo dell’appiattimento di Palazzo Chigi, ma anche delle incapacità private a rischiare in un’operazione di sistema se non con le spalle coperte. Ovviamente a carico del contribuente.
Filippo Burla
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