Roma, 1 mar – L’Istat ha rivisto oggi le stime sul Pil del 2018, ribassandole a +0,9% dal +1% precedente. Se si tratta del quinto anno consecutivo di crescita, la sua dinamica rallenta però sensibilmente rispetto al +1,5% toccato nel 2017. Gli effetti, a cascata, si fanno sentire anche sugli altri indicatori di finanza pubblica. Ad esempio il debito, che tocca in percentuale (132,1% del Pil) il valore più alto mai raggiunto. Peggiora anche il deficit, al 2,1% rispetto all’1,8% previsto dal governo nell’ultima nota di aggiornamento al Def.
Una pessima congiuntura
A pesare nella revisione è soprattutto la seconda parte dell’anno, la cui congiuntura negativa – sulla scia delle turbolenze globali – è riuscita a trainare al ribasso tutti i 12 mesi. Mettendo così anche una seria ipoteca sulle aspettative per il 2019. Se il nuovo anno doveva essere quello del “nuovo miracolo economico” (almeno a sentire Luigi Di Maio), il rischio è invece quello di assistere all’ennesimo periodo di magra nel solco della stagnazione secolare in cui siamo impantanati da vent’anni.
Spiega infatti sempre l’Istat che tra i fattori che hanno condotto al ribasso delle stime troviamo sia la componente interna che quella estera. La prima è in “netto ridimensionamento”, con la spesa delle famiglie sì in crescita ma a tassi sensibilmente inferiori rispetto al passato. Analogo discorso vale per la domanda estera, che cresce del +1,9% quando l’anno scorso arrivò a sfiorare il +6%. Non va meglio per gli investimenti, passati dal +4 al +3,4%.
Non basterà la “manovra del cambiamento”
Di fronte a questa evidente frenata, a poco potrà la “manovra del cambiamento”. La quale deve sì ancora dispiegare compiutamente i suoi effetti, ma è lecito attendersi già in previsione risultati non decisivi. Laddove latita ancora la domanda interna, a causa delle dosi di austerità somministrate negli anni scorsi (e dalle quali, per inciso, la finanziaria attuale non si discosta), non basterà infatti il reddito di cittadinanza a risollevarne le sorti. Tanto più che, dal lato degli investimenti – che portano con sé moltiplicatori fiscali più elevati – troviamo poco o nulla. Eppure la componente interna è l’unica sulla quale, in assenza di possibilità di agire sulla leva monetaria, il governo avrebbe la possibilità di agire concretamente. Proteggendosi così, almeno in parte, dalle intemperie internazionali a cui l’appartenenza alla moneta unica ci ha esposto. Certo, questo implicherebbe ridosare il deficit a livelli sensibilmente maggiori. E quindi riaprire il tavolo con l’Ue. Al quale rischiamo invece di sederci solo per discutere l’ennesima manovra correttiva ai danni dell’Italia.
Filippo Burla