Roma, 9 dic – L’immigrazione internazionale è un fenomeno che ha radici lontane, la disuguaglianza economica e sociale a livello globale ha fatto si che centinaia di milioni di persone vivano permanentemente al di fuori dei loro paesi di nascita. Decine di studi scientifici hanno provato ad analizzare gli effetti economici dell’immigrazione sia a livello mondiale che a livello locale ottenendo, piuttosto comprensibilmente, risultati tutt’altro che definitivi.
Le teorie immigrazioniste hanno sempre fatto leva su alcuni punti chiave sostenendo che gli immigrati:
- contribuiscono al miglioramento del tessuto economico dei Paesi ospitanti ed in ultima analisi alla crescita del Pil;
- migliorano il rapporto tra persone attive e persone non attive (pensionati);
- sono fondamentali per combattere la tendenza demografica che nei paesi più sviluppati è in netto e inesorabile calo.
La prima teoria, ovvero il contributo decisivo alla crescita del Paese ospitante è quella più difficile da analizzare. Prima di tutto i modelli migratori non sono immutabili nel tempo sia quantitativamente che qualitativamente e le variabili da studiare sono moltissime: provenienza geografica, periodo storico e ciclo economico sono tutti fattori che possono cambiare radicalmente i risultati di qualsiasi studio, anche quelli effettuati con i più rigorosi canoni scientifici. Banalmente in piccole economie una immigrazione controllata composta prevalentemente da lavoratori ad alta specializzazione avrà un impatto positivo decisamente superiore rispetto ad un grande Paese, magari in recessione, che accoglie indiscriminatamente forza lavoro caratterizzata da un bassissimo o inesistente livello di scolarizzazione.
In secondo luogo tutti gli studi effettuati si basano esclusivamente sull’immigrazione regolamentata su cui si hanno dati ufficiali in termini di ingressi e di contribuzioni, tralasciando una non indifferente quota di “invisibili” di cui non può essere misurato l’impatto ma che presumibilmente rappresentano un costo netto per le economie che li accolgono illegalmente.
L’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ha analizzato l’impatto dell’immigrazione sulla crescita economica in 22 paesi nel perioso 1986 – 2006 con risultati a dire il vero poco significativi. Gli autori dello studio arrivano infatti alla conclusione che i flussi migratori hanno avuto una influenza sul prodotto interno lordo dei singoli paesi mediamente vicina allo zero.
Vi sono piccoli paesi come il Lussemburgo o la Svizzera, dove la cosiddetta “high skilled migration” ovvero l’immigrazione qualificata, composta quasi esclusivamente da forza lavoro ad elevato tasso di specializzazione, ha portato ad un beneficio netto pari quasi al 2% del Prodotto interno lordo; altre nazioni come Spagna o Grecia presentano un significativo impatto negativo sul Pil a causa di flussi migratori più importanti numericamente ma a bassissima scolarizzazione.
L’economista cubano George Borjas ha dedicato molto tempo a studiare l’impatto dell’immigrazione sul mercato del lavoro e sulle economie dei Paesi ospitanti arrivando anche in questo caso a risultati che mettono seriamente in dubbio la validità del secondo postulato, ovvero i benefici di un incremento della popolazione attiva rispetto a quella passiva. Il suo studio mette in luce come l’immigrazione tende ad essere nel breve – medio periodo un costo significativo per le nazioni ospitanti, quanto maggiore è il livello di assistenza pubblica di questi paesi, arrivando ad ipotizzare un “welfare magnet effect” ovvero una sorta di calamita che attira i flussi verso le nazioni più generose da questo punto di vista. Studi empirici dimostrano come gli immigrati gravano molto di più sui costi dei programmi di sicurezza ed assistenza sociale rispetto ai residenti, ad esempio in paesi come la Danimarca consumano il 23% delle spesa pubblica destinata al welfare, pur rappresentando il 7% della popolazione totale; ed in generale nei paesi occidentali vi è un ricorso da parte dei migranti a forme di sussidi o assistenza pubblica mediamente in misura superiore del 15 % rispetto ai nativi residenti, arrivando a punte superiori al 30% in Canada e negli Usa.
Ma mentre nel breve periodo il costo sociale è certo – ovvero servono risorse per permettere agli immigrati di integrarsi, per educare e crescere i loro bambini e prestare loro cure sanitarie – non vi è alcuna certezza che questi decidano poi di stabilizzarsi definitivamente nel Paese di accoglienza diventando forza lavoro effettiva e dando un contributo netto positivo, potrebbe quindi essere un investimento che non pagherà mai dividendi.
Abbiamo visto che gli effetti benefici sull’economia dell’immigrazione di massa sono quantomeno dubbi e nella migliore delle ipotesi di lievissima entità, dobbiamo chiederci ora quali siano gli effetti negativi in termini di pressione sociale e di abbassamento della qualità della vita. A metterci in guardia su questo aspetto è Robert Rowthorn, professore emerito di Economia alla prestigiosa Cambridge University e considerato molto vicino alle posizioni della sinistra britannica.
Nel suo rapporto “Costi e Benefici dell’Immigrazione su larga scala” il professor Rowthorn afferma che le immigrazioni di massa causeranno soprattutto nelle aree urbane problemi di sovrappopolazione, che andranno ad impattare in maniera più decisa sulle fasce sociali più deboli per un duplice motivo.
Da una parte gli immigrati provenienti da paesi poco sviluppati saranno propensi a lavorare per uno stipendio più basso rispetto ai locali, causando un generale abbassamento dei salari reali; dall’altra potranno creare un sovraffollamento dei servizi pubblici, rendendo poco o per nulla fruibili visite ospedaliere, servizi di trasporto, scuole statali. Secondo Rowthorn questo porterà ad inevitabili tensioni sociali il cui costo nel medio lungo termine sarà di gran lunga superiore ai benefici, tra l’altro solo ipotetici, portati da massicci flussi migratori.
Rowthorn mette quindi sensibilmente in dubbio il terzo pilastro della teoria immigrazionista, non certo negandone gli effetti sullo sviluppo demografico visto che il tasso di natalità è sensibilmente più alto tra gli immigrati che tra i residenti nei paesi sviluppati, ma esplicitandone in maniera decisa ed univoca i pericoli.
Dovremmo inoltre chiederci se questa sia la strada giusta per contrastare il calo demografico, e non sia più lungimirante prevedere, accanto ad un normale flusso migratorio, lo studio di misure atte a contrastare il calo delle nascite, volte sia a rendere meno oneroso l’impatto economico della nascita di un figlio, sia attraverso politiche sociali che garantiscano servizi migliori ai neo genitori.
La complessità e la vastità del fenomeno migratorio rende difficile stilare conclusioni definitive e soprattutto valide come principi generali, le varie nazioni hanno capacità di accoglimento e politiche diverse tra loro, quello su cui gli economisti concordano è che non vi è alcuna tangibile correlazione che possa valere universalmente tra immigrazione e crescita economica, con buona pace dei sostenitori del Global Compact.
Claudio Freschi
3 comments
Pienamente d’accordo sul fatto che l’immigrazione sia necessaria e che costituisca fonte di sviluppo e benessere per tutti. Ed infatti chi e’ quel folle che non la vuole o si scandalizza per Brescia con tutte quelle persone perbene venute da fuori che lavorano alacremente. Dico solo, da leghista, che esistono delle regole. Non si puo’ , ne’ si deve arrivare da CLANDESTINI e aggiungo che chi non vuole lavorare o delinque, deve tornarsene a casa.
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