Roma, 4 lug – Doveva essere una rivoluzione. Almeno nelle intenzioni. Non una vera e propria riforma, ma quantomeno un pungolo per cominciare ad intervenire concretamente sul tema del lavoro. E invece il Decreto Dignità, annunciato urbi et orbi come la pietra miliare dell’inizio di un percorso volto a superare il Jobs Act e le scelte dei passati esecutivi, si risolve in quasi nulla.
Il primo punto all’ordine del giorno doveva essere la questione dei rider, i protagonisti (loro malgrado) della gig economy, che il titolare dei ministeri del Lavoro e dello Sviluppo aveva promesso, come primo atto del proprio mandato, di voler tutelare. Niente da fare: le norme relative sono state stralciate, con il testo definitivo del Decreto Dignità che si limita a riformulare alcune questioni residuali. Le uniche certezze (positive) sono l’aumento del costo del lavoro per i contratti a tempo determinato, al fine di incentivare le aziende a ricorrere più al tempo indeterminato, insieme a maggiori protezioni dal licenziamento. Per il resto, buio totale. Sì, c’è la proposta di Foodora e delle altre società della consegna pasti di sottoscrivere una “carta dei valori” con la promessa di garantire un salario minimo ai propri collaboratori, ma da qui ad affermare che le nuove forme di sfruttamento sono finalmente superate il passo da fare è ancora ben lungo. Anche perché fra gli esclusi dal mondo del lavoro e che devono in qualche modo con i cosiddetti “lavoretti” non ci sono solo i rider.
Luigi Di Maio, insomma, partito lancia in resta si arena già sui fondamentali. È vero, le multe per bloccare le delocalizzazioni si preannunciano salate, così come va vista con estremo favore la stretta sul gioco d’azzardo. Ma le questioni centrali – tutela a 360 gradi del lavoro in primis – restano, per il momento, ancora fuori dal dibattito. O meglio: vi rientreranno dalla finestra visto che il ministro ha optato, per quanto riguarda il tema della somministrazione e dei voucher, di passare per la discussione in Parlamento. Scelta in qualche modo “coraggiosa”, stante il bulimico ricorso alla decretazione governativa nelle passate esperienze di governo, ma che allo stesso tempo nasconde non poche insidie. Prima fra tutte quella di un’eterogenesi dei fini, per cui Camera e Senato potrebbero perfino arrivare a stravolgere le buone intenzioni iniziali.
Filippo Burla
“Vorrei ma non posso”: così il Decreto Dignità non cambia (quasi) nulla per i lavoratori
162