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La “nazionale dei rifugiati” a Rio realizza il sogno della Boldrini

by Adriano Scianca
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refugee_olympic_team-e1470449289463Roma, 8 ago – Ci mancava solo la “nazionale dei rifugiati”. L’ultimo delirio è andato in scena a Rio, dove tra le varie rappresentative nazionali sfilate al Maracanà è scesa in pista anche una delegazione di dieci atleti, sei uomini e quattro donne, raccolti appunto dietro la bandiera dei “refugees”. Ci sono due nuotatori siriani, due judoka della Repubblica Democratica del Congo e sei corridori provenienti da Etiopia e Sud Sudan. Sono tutti “fuggiti dalle guerre”. Hanno una bandiera arancione con una striscia nera orizzontale che la taglia da destra a sinistra, disegnata da Yara Said, siriana rifugiata in Olanda (anche se, pudiacamente, a Rio li hanno fatti sfilare dietro la bandiera con i cinque cerchi) e hanno anche un inno, composto da Moutan Arian, rifugiato in Turchia.

Ovviamente non è chiaro perché un siriano scampato all’invasione della sua terra ad opera di un esercito cosmopolita di tagliagole e psicopatici cessi di essere siriano. Ma la logica dell’operazione, pompatissima dai media, è ovvia: si tratta sempre di quel progetto messianico di ingegneria sociale magistralmente illustrato dalla Boldrini tempo fa. Ricordate? I “migranti” sono “l’avanguardia di uno stile di vita che sarà anche il nostro”. Ecco, la logica è questa. E infatti i commentatori commossi non hanno potuto fare a meno di riconoscere in ogni dove che quella delegazione “rappresenta tutti noi”. Ma io non sono un “rifugiato”, sto sulla mia terra, tifo per i miei atleti, perché dovrebbero rappresentarmi i “refugees”? Proprio perché la condizione di apolide e sradicato che queste persone incarnano va estesa a tutto il mondo.

Ecco perché di dieci storie singole si cerca di fare una storia comune, ecco perché spuntano bandiere e inni: perché la condizione di rifugiato va rivendicata in positivo. Non si tratta più di un accidente, ma di una condizione permanente e generalizzata. Parallelamente, la “scandalosa” presenza di un tifo nazionale nelle grandi competizioni sportive – che tempo fa scandalizzò Le Monde per il portato “nazionalista” che la cosa comporta – viene in questo modo cortocircuitata: l’atleta non rappresenta una narrazione comune di tipo nazionale, ma porta con sé solo la sua storia individuale. Ma a questo punto non sarebbe meglio farla finita con le Olimpiadi e salvare almeno la faccia?

Adriano Scianca

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3 comments

Dino Rossi 8 Agosto 2016 - 3:05

le olimpiadi hanno perso da tempo il loro significato più vero, Nazioni che non avevano rapporti si ritrovavano sotto al Sacro Fuoco di Olimpia. Oggi è la politica ed il politicamente corretto a farla da padrone, Dimostrazione ne sia il tentativo, ignobile e scandaloso, di eliminare dai giochi tutti gli atleti della federazione Russa anche quelli che con il doping non hanno nulla a che fare.
Come ben spiegato su queste pagine, calpestando così lo sbandierato “stato di diritto” che vede la colpa individuale e mai estesa per decreto a tutti gli appartenenti ad un gruppo sia esso sportivo religioso od etnico. Altrimenti coloro che blaterano su Islam di pace e terroristi islamici come dei pazzi che nulla hanno a che fare con la religione, si smentiscono da sé.

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gaetano 8 Agosto 2016 - 4:43

Da notare Ban Ki Moon che ha applaudito solo alle due rappresentative senza identità:rifugiati e atleti misti…

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Turzo 10 Agosto 2016 - 8:35

Ma in che cazzo di mondo stiamo vivendo?

Spero che alle prossime olimpiadi sfileranno pure gli atleti dell’ISIS

così siamo tutti al completo (ah. dimenticavo la Russia NO perchè Putin non la pensa come loro)

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