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Coronavirus, ecco l’«aiuto» dell’Ue: il 16 marzo vuole approvare il Mes

by Filippo Burla
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Mes faremo fine grecia

Roma, 8 mar – Nel bel mezzo dell’emergenza – italiana per ora, ma destinata con ogni probabilità a diventare comunitaria – coronavirus, l’Unione Europea non ferma le sue macchine. Per venire incontro alle nazioni colpite dall’epidemia? Macchè: per approvare il Mes.

Eurogruppo il 16 marzo

La data prescelta è lunedì 16 marzo. Quel giorno sul tavolo dell’Eurogruppo – l’assise informale al quale siedono i ministri dell’economia e delle finanze della zona euro – approderà la versione definitiva della riforma del Mes, il meccanismo europeo di stabilità.

In tale occasione i ministri saranno chiamati a dare l’approvazione definitiva al testo, sul quale si lavora da settimane per limare gli ultimi dettagli. Sarà richiesto il voto unanime prima di addivenire alla firma da parte dei governi, che farà poi partire l’iter di ratifica dei singoli parlamenti.

Sul Mes il governo ha disatteso i mandati

Come si ricorderà, il Mes è stato – fra le altre cose – alla base della caduta dell’esecutivo gialloverde. Fu proprio la componente leghista a chiedere conto al premier (nonché al ministro dell’Economia di allora, in “quota” Quirinale, Giovanni Tria) di quanto stesse accadendo sui tavoli europei, in virtù della risoluzione parlamentare Molinari – D’Uva che impegnava il governo “a non approvare modifiche che prevedano condizionalità che finiscano per penalizzare quegli Stati membri che più hanno bisogno di riforme strutturali e di investimenti”, nonché a subordinare ogni firma ad un approccio “di pacchetto” che consentisse “una condivisione politica di tutte le misure interessate, secondo una logica di equilibrio complessivo”.

Pur con una modifica nella composizione della maggioranza, un simile documento – che per il governo dovrebbe essere vincolante – è stato votato lo scorso dicembre, nel quale si chiedeva di “escludere interventi di carattere restrittivo sulla detenzione di titoli sovrani da parte di banche e istituti finanziari e comunque la ponderazione dei rischi dei titoli di Stato attraverso la revisione del loro trattamento prudenziale”, nonchè ad escludere “qualsiasi meccanismo che implichi una ristrutturazione automatica del debito pubblico”, mantenendo inoltre sempre la logica “di pacchetto”.

Partiamo dal fondo e cioé dalla logica “di pacchetto”, per la quale la firma in calce al Mes dovrebbe essere apposta solo nella misura in cui la riforma del meccanismo sia accompagnata da tangibili passi avanti su altre due riforme: quella dello strumenti di bilancio della zona euro e quella dell’unione bancaria, garanzia comune sui depositi compresa. Ebbene, se sul Mes una data (il prossimo 16 marzo) l’abbiamo, per le altre componenti del “pacchetto” siamo invece in altissimo mare, praticamente alle fasi preliminari che si sostanziano in generiche (quanto vaghe) promesse.

Se non fosse sufficiente, il governo ha tradito il mandato anche sulla questione del debito pubblico, che una volta assoggettato alla disciplina del Mes rischia di perdere da un giorno all’altro la sua qualifica di strumento “risk-free” per eccellenza. Anche senza meccanismi di ristrutturazione automatica (la cui assenza, se confermata, sarebbe l’unica clausola rispettata dall’esecutivo in sede di trattative), rimarrebbero comunque la disciplina delle clausole di azione collettiva pensate ed inserite proprio per agevolare percorsi di ristrutturazione in accordo con i creditori.

Leggi anche – “Faremo la fine della Grecia”: con il Mes diventerà possibile

Con il risultato, esponendo i nostri titoli pubblici alla possibilità di fare default, di vedere effetti a cascata in termini di maggiori rendimenti richiesti in un momento – non durerà qualche mese – di difficoltà per le finanze nazionali le quali dovranno fare i conti con la drammatica recessione che ci attende a causa delle misure restrittive varate per far fronte all’emergenza coronavirus. Proprio la stessa che da Bruxelles (e dal governo, a parlamento di fatto chiuso) sfruttano per far passare, in sordina, la riforma.

Filippo Burla

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